Sergio di Falco

 

Il click attutito scaturisce dall’intercom tattico e attraversa il tessuto sottile del passamontagna nero.
Disco verde, finalmente.
Appena qualche metro sulla destra, Fulgoni osserva con calma, occhi da rapace nascosti dagli Oakley antivampa, prototipo dell’operatore di ghiaccio.
Cenno impercettibile del caschetto kevlar.
-Fiamma uno a squadra, abbiamo disco verde, ripeto abbiamo disco verde. Base hai una visuale utile?
Rizzo e il PSG1 al quinto piano, nel palazzo di fronte, lo sniper del gruppo.
-Negativo, uno, tutte le finestre sono oscurate, tiro impossibile, ripeto, tiro impossibile.
Pochi decimi di secondo per decidere.
-Va bene, allora entriamo. Due, tre, quattro. Al mio mark.
Tre leggeri ritorni elettronici dalla radio, Fulgoni, Terrasini e Sarigu in posizione.
Respiro, piccola nuvola di condensa a perdersi nell’atmosfera gelida. Appesi a pochi centimetri dai vetri dell’appartamento a quota trenta metri, io e Fulgoni rabbrividiamo per un istante preda della brezza milanese.
Terrasini e Sarigu hanno scalato il palazzone popolare dall’interno, gradino dopo gradino, metro silenzioso dopo metro, ora, davanti alla porta, attendono il via.
Il Maresciallo Fulgoni si è calato dal tetto in corda doppia appena dopo di me, HK51 in presa sicura, muscoli tesi per l’ultimo balzo.

-TRE.

Molleggio sulle gambe, il mio compagno fa lo stesso.

-DUE.

Mi allontano dal muro rimbalzando come una palla di gomma.

-UNO.

Baricentro di massa focalizzato su un punto preciso del vetro.

-MARK.

Sfondiamo come arieti impazziti il cristallo, nello stesso istante due esplosioni assordanti seguite da lampi bianchi al fosforo sconvolgono l’appartamento.
Siamo dentro.
Tempo, in dilatazione costante.
Arenato in una sacca fangosa, trascinato in avanti dal battere dei secondi, rintocchi scanditi dal rapido martellare dei percussori.
Lo stopframe si frantuma, la corsa diventa un vortice che inghiotte tutto e tutti.
Nell’attimo stesso in cui implodiamo all’interno dell’appartamento i movimenti assumono una soluzione di continuità al limite del soprannaturale. La mano destra colpisce al centro del petto sganciando l’imbragatura da montagna, picchio con la spalla sinistra le piastrelle unte compiendo una capriola verso destra, una cascata di vetri rimbalza sul pavimento verso il muro della stanza.
Quando percepisco le suole degli anfibi in linea orizzontale faccio partire la prima raffica, alzo zero, polso sinistro a coprire la canna dell’MP5SD3.
La visione d’insieme è decisamente virata al romanzetto sadomaso, la ragazza legata al letto mostra abbondanti ferite da coltello sul corpo denudato con furia, due dei quattro albanesi che la tengono prigioniera da ormai cinque giorni fanno l’errore terminale d’impugnare le pistole ed esplodere qualche colpo verso me ed Enrico Fulgoni.
Dal piccolo ingresso il carabiniere scelto Vincenzo Sarigu pone fine a una gloriosa carriera criminale freddandoli alle spalle con due scariche di pallettoni acciaio triplo zero, i bossoli dello SPAS 15 impattano con un rumore di plastica cava.
Gli altri due papponi che infestano l’appartamento decidono che la lezione alla puttana può considerarsi finita, uno perde fiotti di sangue dallo squarcio sulla coscia sinistra, dove i calibro nove del mio fucile d’assalto si sono aperti una via.
In ginocchio, le mani sopra la testa, osservano in silenzio Terrasini che porta la mano al comunicatore.
-Fiamma tre, obbiettivo libero, mandate i paramedici.
Fulgoni si gira lentamente.
-Tempo.
Osservo il cronometro fissato alla mimetica nera del GIS.
-Sette e quattro.
-Migliorabile.
Sorrido.
-Sono d’accordo.
-La ragazza?
-Niente che non abbia già sperimentato con qualche cliente.
-Ti sentissero i giornalisti.
-Sto tremando dalla paura.
-Vediamo di levarci dalle palle, prima che arrivino sul serio.
-Concordo, a tutti, leviamoci dalle palle.
Gli uomini in banda rossa osservano le ombre scivolare verso il basso dalla tromba delle scale, un leggero fruscio accompagna la discesa.

Ombre.

ADR 97 – Classe 2, 3° A, UN 1977, azoto liquido refrigerato

Se hai 35lt del suddetto fissati nel retro del pickup, appena a una spanna dalla schiena.
Se valuti ottimale il modo in cui il serbatoio è stato fissato.
Se commetti l’ennesimo errore madornale di valutazione della tua vita.
Se in questi giorni nei dintorni di Milano la quantità di rincoglioniti in macchina si eleva in maniera esponenziale causa strafottuto salone del mobile del cazzo.
Se fai un favore a un collega malandato e, anche se non ti spetta, ti siedi alla guida del pickup.
Se in tangenziale est il bastardo davanti a te non ha gli stop.
Se pesti la più grossa frenata degli ultimi cinque anni.
Se con la coda dell’occhio (dove vivono mostri e incubi) scorgi DISTINTAMENTE il pentolone ghiacciato che si inclina verso la tua faccia.

Allora capisci.

E quando lo osservi mentre ritorna barcollando al suo posto senza aver versato neanche una goccia, te lo ripeti ancora una volta regalandoti la più classica delle frasi da film:

Cristo, sono troppo vecchio per queste stronzate.

Come as you are

Qualche anno fa, mentre tentavo allegramente di ammazzarmi cavalcando le onde oceaniche lungo le coste di Bali (ok PARECCHI anni fa), mi ritrovai gomito a gomito gocciolando sulla spiaggia con Steven Tyler, il frontman degli Aerosmith.
A mio parere lui aveva più o meno gli anni che ho io oggi, forse qualcuno di meno, ma l’impressione che ne ricevetti era di un magrissimo cazzone con in testa ben poche cose che non riguardassero figa, musica, alcolici e sostanze incerte da assumere in vari modi.
Ricordo che pensai subito: Il cazzone si mantiene bene, ho qualche speranza per gli anni a venire.
Rivedendo ultimamente come si è ridotto, mi accorgo di essermi clamorosamente sbagliato.
Fottersi giornalmente di qualsiasi cosa ti venga in mente non aiuta a rimanere lucidi.
Dunque la soluzione quale sarebbe, diventare un coglione vegano e stabilirsi in Tibet predicando a piedi nudi con i tamburelli?
Non mi ci vedo.

Lo stato mentale è la soluzione.

Se vivi e rimani vivo, impegnato, scrivi, leggi, ascolti musica, lavori (se puoi), scopi (se puoi), ogni tanto ti fai una bella mangiata/bevuta, ti fai un MAZZO così con i figli (ok magari anche no), insomma rimani sul pezzo.

Ci sono buone probabilità che ti scoppia un infarto prima dei 50.
Magari anche no.
Ma almeno potrai sempre sentire qualcuno che dice:
Cioè tu hai VERAMENTE xx anni? Beh complimenti.

E vi assicuro che SONO soddisfazioni a questi traguardi.

E inoltre

Io ho addosso un bell’abito blu, le mani nelle tasche dei calzoni, e speriamo che prima o poi mi possa bastare.

Nick Damone

Milano è un teorema di spigoli vivi, parti molli ridotte all’osso.
Abbandonare l’asettica sicurezza di una trazione anteriore per un vacuo respiro di polvere tiepida. Sono luci grigie e mani in tasca, mai avuto un cappotto in vita mia, se l’avessi mi sentirei quella foto.
Jimmie Dean, Jimmie Dean.
Se l’avessi le microgocce della non-pioggia di Milano s’incastrerebbero nel cuore.
Ma scivolano via in un bianconero nitido.
Lungo la superficie increspata dell’anima di un lupo.
Troppe domande senza una vera risposta negli occhi, nelle facce sbavate di Milano.
Accarezzando la luce lontana di un inverno morente cerco il tuo sguardo nel riflesso neon di una vetrina vuota.
Mani che ancora stringono il niente e piantano unghie, fiamme che danzano attraverso un velo solido.
E noi siamo qui ad aspettare un pianista che ci faccia volare ma che è sempre costantemente in ritardo sulla stronza tabella, perso in Stazione Centrale, fottuto da qualche rumeno svelto con la bocca e la lama.
Piccola non guardarmi che non sorrido a te è una cazzo di smorfia di dolore, lei offesa rimbalza uno spruzzo di profumo leggero e torna a girarsi lungo lo squallido profilo di un parabrezza a mille pollici.
Nessuna resa mai.
Eppure qui ci stiamo accasciando a colpi di muri che stringono il cuore, tipo un filo spinato creato a regola d’arte per rubarti l’anima e il respiro.
Vattene allora coglione.
Ma io non ci resisto senza queste costole di fonderia che lastricano le strade di un inferno sbiadito. Faccio fatica anche solo ad immaginarmi senza Milano, senza quelle poche voci che mi piace ascoltare mentre si sbrodolano addosso dubbi senza speranza.
Solo che tu non capisci e blateri di Vigevano. Cristo mi ci vedi a bordo Ticino a fottermi di zanzare, sono un animale da cemento e scappamenti, semafori e periferie.
Poi c’è questa cosa che Aprile è già qui e si porta appresso una doppia cifra contorta, che sa di angolo cieco.
Il viale si allarga, lo sguardo si assottiglia ed è una tregua improvvisa di rumori mentre una sberla di sole ci prova decisa.
E inoltre vorrei sedere a un tavolo, Capossela leggero là in alto che biascica note, due o tre amici un po’ sbronzi, quel tanto che basta a sciogliere il fegato indurito da troppa Milano. Qualche lacrima, un paio di sorrisi, parlare d’amore e pallone.
Mi accontento di poco, guardare in faccia alla gente e capirli solo un po’.
Poi buttarli dentro ai loro incubi peggiori.
E inoltre.

Ultimo giorno di lavoro

 Saigon, merda.
Tutti ottengono tutto quello che vogliono.
Io volevo una missione e per i miei peccati me ne hanno data una.
Era una missione davvero eccezionale e quando la portai a termine, non ne avrei mai più voluta un’altra.

 Saigon.
La prima parola di quel vecchio film continuava a ronzare nel cervello come un insetto fastidioso.
Sapeva di caldo appiccicato alla schiena, pale in rotazione veloce sul soffitto, whisky da quattro soldi e puttane con gli occhi a mandorla.
Osservai la minuscola capsula bicolore che troneggiava davanti a me sulla scrivania di formica sbeccata. Il sospiro riempì l’aria fumosa creando piccoli mulinelli nella cenere che galleggiava pigramente davanti agli occhi. Impugnai con due dita e ingoiai con un sorso di Nardini, il bicchiere velato da impronte unte di sudore. Assaporai il sapore acre che riempì la gola, quello che venne dopo fu decisamente meglio.
Il calore partì dalle gambe, si sparse all’inguine e schizzò nel cervello spalancando le sinapsi come una fucilata; la percezione delle cose mutò decisamente verso una nitidezza sconvolgente, il mondo faceva meglio a stare in campana.
La voce scoppiò al centro della fronte, amplificata da un milione di megafoni del cazzo.
– Ispettore, mi scusi.
Alzai gli occhi sul fisico debordante costretto nella divisa da poliziotto; i pantaloni azzurri parevano sul punto di esplodere, la giacca scura stropicciata oltre ogni limite, quando il mio sguardo accarezzò i capelli unti dell’uomo soffocai un conato di vomito.
Provai a impostare un tono di voce normale, ne venne fuori un singhiozzo strascicato.
– Dimmi Sartori, che vuoi.
Impugnava un fascio di documenti, almeno metà delle pagine era stata accartocciata e riportata poi alla forma originale.
– Ci sarebbero questi da controllare e firmare, so che magari lei è impegnato ma il commissario li ha richiesti espressamente.
Non mi era piaciuto per niente il tono con cui aveva sottolineato magari lei è impegnato, mi alzai e lo squadrai da sopra il mio metro e novanta abbondante.
L’anfetamina era al suo picco massimo ero pronto a spezzargli il collo con un semplice tocco delle mani.
– Sartori tu mi stai sui coglioni, credo che te ne sia accorto. Farò il mio dovere di burocrate del cazzo quando ne avrò voglia. Ora levati dalle palle.
Sembrò accusare un pugno alla bocca dello stomaco, per un attimo ebbi l’impressione che avrebbe estratto la Beretta pompandomi in faccia tutto il caricatore.
Non lo fece. Farfugliò qualcosa e si allontanò facendo ondeggiare un sedere enorme.
Mi girai con calma, le pochissime facce illuminate dai neon del commissariato appartenevano a strani spettri traslucidi, nessuno di loro interessato alla scena; affari dell’antidroga, fatti i cazzi tuoi e avrai una carriera lunga e folgorante, questa era la legge.
M’incamminai verso l’uscita, la notte milanese stava per finire e niente sarebbe stato più lo stesso.
– Novelli.
L’ultima voce che avrei voluto sentire in quel momento, lo sguardo corse lungo le pareti scrostate fino a quando i miei occhi incontrarono i suoi.
Commissario capo Andrea Conti, il figlio di puttana più grosso di tutti.
– Novelli per cortesia puoi venire un attimo nel mio ufficio?
L’invito era stato rivolto con un tono di voce leggermente più alto del normale, qualche spettro sollevò gli occhi vuoti scivolando attraverso lucide occhiate incuriosite.
– Commissario stavo per uscire, i ragazzi stanno aspettando.
Inchiodò il coperchio della bara senza neanche farmi terminare la frase.
– Ci vorrà solo un momento Marco.
Sparì all’interno dell’ufficio ingoiato dalla livida luce biancastra.
La stanza era intrisa di fumo pesante, il toscano appoggiato sul portacenere di metallo da bar sfuocava il viso del poliziotto in maniche di camicia, rendendolo simile a uno strano miraggio.
Rimasi in piedi mentre faceva finta di studiare una pila di documenti per farmi innervosire.
Giravano varie storie su quell’uomo, cose che avevano a che fare con tre anni di carriera passati a snidare uomini d’onore casa per casa tra Catania e Gela.
Una volta avevo visto Al Pacino impersonare uno specialista dell’antirapina, un individuo senza una vita vera, rapporti personali annullati, un fascio di nervi teso allo spasimo. Andrea Conti era esattamente così.
– Marco circolano voci su di te.
Lo disse assaporando le parole, scavando in fondo all’anima.
– Commissario lo sa meglio di me, a rimestare merda ti resta addosso la puzza.
Era la risposta standard che fornivo in questi casi, non sapevo se gli sarebbe bastata ma l’effetto della pastiglia si stava diradando e faticavo a mettere insieme qualcosa di più articolato.
L’orologio appeso alla parete sopra alla fotografia di Napolitano scattò sulle due, Giovanni e Luca erano fuori con il motore della Brava al minimo domandandosi che fine avessi fatto.
Soffiò fuori una piccola nuvola di fumo, aveva gli occhi cerchiati rosso e decise che per stasera ne aveva abbastanza di me.
– Diciamo che per ora mi sta bene così.
Ebbe un guizzo appoggiandosi allo schienale di finta pelle della poltrona.
– Ma fai attenzione ispettore non vorrei essere costretto a esigere il tuo culo. Di inchieste interne ne abbiamo pieni i coglioni.
Annuii lentamente, abbassò di nuovo lo sguardo sulle carte, il colloquio era finito.

Luca guidava come suo solito ignorando di proposito la presenza degli altri veicoli, quando i conducenti protestavano si limitava a sorridere un ghigno da lupo nel buio dell’abitacolo. Per i più intraprendenti Giovanni aveva pronta la paletta targata ministero degli interni infilata nel vano portaoggetti della portiera.
Li osservai.
Facevamo squadra da tre anni. Rapportato alla media delle altre unità era parecchio tempo.
Avevamo il nostro business, i giri fissi, il mercato tirava, il resto lo facevano le tessere della PS e le automatiche ben visibili sotto i giubbotti.
Eleonora metteva in mostra l’unica merce disponibile lungo viale Abruzzi.
In realtà non sapevo il suo vero nome, era russa e guadagnava dai due ai tremila euro a notte. Come per una decina di sue colleghe il venti per cento finiva nelle nostre tasche, questa transazione faceva in modo di tenere lontano da loro il racket di albanesi che spadroneggiava nel capoluogo lombardo.
Avevamo faticato parecchio per ritagliare la nostra fetta, c’era stata Miriam sventrata e ritrovata con le viscere cacciate a forza in gola. Silvia, bruciata viva in mezzo a un parcheggio vicino a Bisceglie, un altro paio di loro che rifiutavo di ricordare.
Alla fine, imposta la nostra legge, tutto aveva filato liscio per un po’.
Dopo qualche tempo avevamo deciso di buttarci in un altro settore molto più redditizio, il problema era che quando si parlava di droga non avevi a che fare con bande di slavi.
Il gioco s’impennava verso l’alto a una velocità impressionante e i nomi, pesanti come macigni, erano i soliti.
Il capezzolo sinistro della ragazza premette contro il finestrino del passeggero, un mezzo sorriso sbavato di rossetto da poco le apparve sul volto. Il sovrintendente Giovanni Di Buono, padre di tre figli fece scorrere verso il basso il vetro e protese la lingua mentre la puttana introduceva la mano destra e iniziava un deciso massaggio all’inguine.
Accesi una canna appoggiandomi allo schienale, il fumo s’infrangeva sul soffitto dell’auto civetta, chiusi gli occhi cercando in fondo alla sigaretta tutto il coraggio di cui avrei avuto bisogno quella notte, poi sorrisi, in fondo era stata una vita intensa. Passai le mani sul volto spigoloso, zigomi alti e ben definiti andarono ad urtare le falangi che seguivano il profilo. Le dita proseguirono verso l’alto perdendosi nei capelli biondo cenere, l’interno della macchina ricomparve nel mio campo visivo.
Ora di andare
– Luca.
L’assistente scelto Luca Casati si girò lentamente, persino nella quasi totale oscurità i suoi occhi da calabrese brillavano come pezzi di ossidiana purissima; alzò il mento ricoperto della barba di un paio di giorni, ispirò una lunga boccata di Marlboro stretta fra i denti e soffiò il fumo acre verso di me.
Di Maggio aveva una cordiale antipatia nei miei confronti, Casati semplicemente non mi poteva vedere. Questo mi divertiva parecchio, l’odio palpabile di quell’uomo mi costringeva a stare sempre a cazzo dritto, atteggiamento decisamente consigliabile nel mio mestiere.
– Dobbiamo andare.
Annuì lentamente, ancora quel maledetto sorriso, forse era l’unico di noi tre che davvero godeva nel fare quello che facevamo. Ripartì sgommando lungo il viale ricolmo di luci bagnate, la non-pioggia di Milano continuava a darle l’aspetto di una pozza umida. Ridotte a un’impalpabile tendaggio polveroso le gocce riuscivano a penetrare fino alle ossa, soffocai un brivido lungo la colonna vertebrale. Mentii a me stesso, quella sensazione era il primo sintomo di un bel raffreddore.
Chiusi ancora gli occhi e ripassai a mente quello scambio veloce di parole smozzicate, non c’erano stati accordi melodrammatici, piatti di spaghetti e polpette o una riunione attorno a un tavolo di cristallo. Semplicemente l’uomo ci aveva invitati a bere un caffè in un bar di viale Fulvio Testi, aveva fatto roteare con eleganza il cucchiaino e aveva sorriso.
– Possiamo arrivare a un accordo.
Ecco cosa aveva detto.
Poi si era allontanato dal banco di marmo e aveva pronunciato due semplici parole.
– Enrico Spinosa.
Giovanni aveva soffocato un’imprecazione tra i denti, il sorriso di Luca si era spento.
Io avevo sentito un’orda nera agganciarmi la cervicale. Mancava una parola alle due pronunciate dal rappresentante della famiglia Sanvito.
Giudice.
L’auto blu scuro sfrecciò in mezzo al traffico, un tunnel vaporizzato vibrava sui vetri sporchi rendendo la visuale simile a un universo sbagliato, corrotto. Nessuna alternativa, l’offerta era di quelle che non si rifiutano, ammazzare un giudice della repubblica e arricchirci, svanire in un bidone di acido con i coglioni infilati nella trachea.
Colsi gli sguardi dei passeggeri delle altre auto, gente che tornava a casa dopo una serata passata al cinema e al ristorante, ragazzi sballati che facevano stridere le gomme delle utilitarie truccate, la musica a un livello spaventoso. Ambulanze, auto dei carabinieri, poliziotti, puttane, travestiti, drogati barcollanti.
Fanculo, quello era il mio mondo, avevo accettato le regole del sistema, sarebbe stata una missione come un’altra.

07.30

Livido.
Un colore dipinto da un maniaco omicida, rinchiuso tra quattro mura imbottite.
Il cielo di Milano regalò un’alba colma di piombo. Estrassi per l’ennesima volta l’automatica d’ordinanza, caricatore bifilare da tredici, guance in radica su misura, eppure in quel momento sembrava pesare come tutto l’universo.
Camel, la prima.
Di Buono porse il thermos di caffè ormai freddo, cercai di stirarmi sul sedile, raccolsi una manciata di spilli piantata nella nuca.
Il giudice usciva di casa tutte le mattine un quarto alle otto, puntualissimo.
L’auto della questura era già davanti al passo carrabile, l’unico uomo di scorta faceva brillare la cenere della sigaretta nella penombra, il tubo di scappamento scaricava vapore nell’atmosfera gelida.
Era previsto.
Eppure per un attimo desiderai abbandonare tutto, eravamo sul confine, non saremmo mai più tornati indietro.
Lo sbirro che fumava in macchina in attesa di portare il giudice in tribunale era sacrificabile, un bersaglio, il nostro bersaglio.

07.38

Casati ringhiò.
– Cazzo quest’affare puzza come un rumeno, non mi va, non mi va.
Sudavo, l’automatica stretta fra le dita.
– Nessuno ti ha obbligato, ora però sei in ballo e vedi di ballare a tempo.
Un soffio, parole smozzicate.
– Speriamo che ne valga la pena.

07.45

Fu come un’allucinazione sonora, mi parve di sentire i passi risuonare nell’androne deserto.
– Eccolo.
Di Buono armò la leva del Kalashnikov con uno scatto nervoso, calcai in testa il passamontagna nero, fecero lo stesso. La voce risuonò ruvida, spenta.
– Vai Luca, vai.
Schizzammo in avanti sospinti dal motore sovralimentato della Fiat, l’uomo al volante della Croma blu sembrò intuire qualcosa ma rimase fermo, le mani sul volante.
Rimase fermo. Le mani sul volante.
In seguito tutti, proprio tutti i secondi, sembrarono dilatarsi in un nulla infinito, pieno di rumori ovattati.
Luca inchiodò, le gomme produssero un curioso suono sibilante sull’asfalto bagnato, Spinosa si buttò a terra lanciandosi verso il buio alle spalle.
L’aria fredda fece lacrimare gli occhi mentre mi catapultavo assieme a Giovanni fuori dalla Brava.
Il giudice non avrebbe dovuto reagire così e lo sbirro.
Fermo.
Le mani sul volante erano sparite e lui si era sdraiato sul sedile del passeggero.
Ebbi appena il tempo di far scivolare lo sguardo a destra mentre Di Buono ancorava il calcio del fucile d’assalto alla spalla.
Ombre.
Vomitate da un inferno ricoperto di giubbotti corazzati, mitragliette a tiro rapido, elmetti neri in kevlar.
I cinque NOCS apparsi dal nulla aprirono il fuoco simultaneamente falciando l’aria con una serie di raffiche controllate. L’uomo alla mia sinistra incassò due, quattro, dieci blindati che lo mandarono a scomporsi in un balletto fatto di puri scatti nervosi. Il sangue spruzzò il parabrezza immacolato di una BMW disegnando una ragnatela porpora.
Il primo colpo mi fracassò la clavicola sinistra piegandomi in due, quando le ginocchia impattarono sul terreno cercai di sollevare la pistola, nello stesso tempo vidi il parabrezza della Brava trapassato all’altezza della testa di Luca. Gli altri proiettili mi sbatterono all’indietro attraversandomi il torace appena al di sotto della velocità del suono.

07.47

Respiro.
La bocca è piena di un sapore di ferro dolce. L’odore è quello della battaglia, cordite, fumo, piscio rilasciato dalle vesciche dei moribondi.
Respiro.
Gli uomini in nero sono attorno a me, sopra di me.
Andrea Conti si china piegando le ginocchia, mi osserva sorridendo, impugna un grosso revolver, un filo di fumo dalla canna.
Scuote la testa lentamente.
Respiro.
– Pensavi davvero che nessuno ti stesse tenendo d’occhio?
Scuote ancora.
– Povero imbecille. Sono mesi che passiamo al setaccio la tua lurida vita.
La sua espressione si fa più seria.
– Ho cercato di darti un’opportunità. Sarebbe stato meglio chiudere quando ne avevi la possibilità no?
Respiro.Cerco in qualche modo di rispondergli, ne viene fuori un rantolo umido.
Si abbassa verso il mio orecchio destro.
– E poi, credevi veramente che i Sanvito ti avrebbero lasciato in giro a farti i cazzi tuoi?
Si alza lentamente, la figura disegnata contro il cielo grigio sembra sfuocarsi per un istante. Giro la testa, l’asfalto è freddo contro la guancia, gli occhi di Giovanni mi fissano immobili, lontani milioni di chilometri.
Respiro.
Res…