Duecento metri

L’uomo biondo assapora l’attimo, volge lo sguardo verso il cielo livido, percepisce i fiocchi leggeri accarezzargli le guance, la fronte, il collo perfettamente sbarbato.
L’uomo biondo annusa il freddo, il gelo che pare pervadere l’immensa piazza, chiude gli occhi, un odore diverso s’insinua attraverso le sinapsi, un’espressione corrucciata nasce lentamente, piega le labbra in un sorriso acido, da lupo.
Stringe con forza i pugni all’interno dei guanti invernali rinforzati kevlar, dotazione voyska special’nogo naznačenija, più semplicemente forze spetsnaz.
L’odore invade, percorre tutta quanta la Ilynka fino allo schieramento, s’infrange sul filo spinato, sulle postazioni delle mitragliatrici, sulle canne dei fucili automatici.
Quell’odore.
Carne bruciata.

Duecento metri

– Generale Gudenko, signore.
– Dica capitano, qualche dubbio sul mio ultimo ordine, non è stato inteso correttamente?
Un automatismo preciso, senza esitazioni, incertezze.
– Nessun dubbio signore.
– Quindi capitano, presumo che avrà già trasmesso alla catena di comando le mie parole.
– In verità generale, signore, insomma.
Lentamente, molto lentamente l’uomo biondo scandisce le parole.
– In verità, capitano, lei sta dicendo che contravviene a un mio ordine preciso?
Inchiodato, finito, sepolto vivo in qualche remoto avanposto siberiano a sorvegliare la transumanza delle renne.
Con un ultimo guizzo l’uomo si rende conto di essere ANCORA un ufficiale dell’Armata Rossa.
– Generale non mi permetterei mai e lei lo sa bene. Ma questo.
Indica con un gesto ampio della mano guantata.
– Questa follia. Insomma sono russi è il nostro popolo.
Per la seconda volta l’alto ufficiale lo osserva fino in fondo alle pupille.
– No Dimitri, questo non è più il nostro popolo, questa è una massa compatta all’attacco. Una massa senza più un briciolo di umanità, che le squarcerebbe la gola a morsi senza esitare mezzo secondo, se solo desse loro la possibilità di farlo. Quindi, Dimitri, faccia eseguire il mio ordine.
Nessuna incertezza, nessun dubbio, esitazione.
– Lo faccia eseguire ORA.

Centocinquanta metri.

Diciotto Gennaio duemiladiciannove, tre anni dall’episodio zero.
Dieci Gennaio duemilasedici, sette operai di un’acciaieria italiana, senza lavoro per la chiusura dell’impianto, imbottiscono i giacconi che usano per lavorare di RDX T4 e dopo essere penetrati nell’ingresso del parlamento di Roma con uno stratagemma, si fanno esplodere in mezzo alla folla.
Un’intera ala del palazzo crolla causando duecentosettanta morti.
L’episodio viene comunemente considerato il punto zero, il primo gradino di un’escalation senza precedenti.
In tre anni si contano trecentoventi episodi kamikaze in tutta Europa, miseria, malattia, semplice perdita del lavoro, sebbene la vendita degli esplosivi commerciali venga sospesa in tutta la federazione, gli attentati si susseguono.
All’inizio del duemiladiciotto i morti sono settemila dal Portogallo alla Bulgaria.
L’economia del vecchio continente è in drammatica picchiata da almeno dieci anni, milioni di persone non hanno di che vivere, milioni di persone sono senza un vero lavoro, milioni di persone vivono per strada, sbandate.
Il suicidio di massa sembra essere l’unica soluzione plausibile per questi disperati.

Cento metri.

Dimitri Volkov deglutisce succhi gastrici.
Stringe la ricetrasmittente fino a farla scricchiolare.
– Tenente, comunichi ai reparti, sequenza di tiro, tre salve HESH per ogni carro.
– Capitano ho necessità di una conferma, può ripetere l’ordine, signore?
– Mi ha sentito Ivan, faccia muovere quelle maledette torrette, state pronti e che dio ci aiuti.
Leggera pausa sospesa.
– Bene capitano.

Cinquanta metri.

Duemila, forse tremila persone, coperte di stracci, coperte di niente, trascinando bastoni, coltelli asce, qualche arma da fuoco, uomini, donne, bambini.
La massa compatta prende la rincorsa, la massa compatta digrigna denti, emette suoni gutturali che non hanno davvero più niente di umano, la massa compatta esplode verso i militari schierati a protezione della piazza.
L’ultima piazza prima di un nuovo punto zero.
Gudenko osserva con calma l’incedere, la perfezione mortale di tutto questo, indossa la mimetica da combattimento del gruppo, sulla manica sinistra un piccolo vezzo, appena sotto le tre stellette del suo grado il simbolo dei Vympel, il suo vecchio reparto, il gladio e il paracadute.
Respira ancora una volta il gelo, poi porge la destra a Volkov che lo osserva bianco in volto.
– Grazie capitano, di tutto. Trasmetta un criptato al ministero degli interni, Capo di Stato maggiore Generale Ratoff, trasmetta questa due parole: “neve rossa”, mi ha capito bene?
L’ufficiale annuisce stringendo la mano del suo superiore, afferra di nuovo la radio, senza distogliere lo sguardo dalla massa batte velocemente sulla tastiera di criptatura automatica.
Gudenko si rivolge di nuovo a lui.
– Ora Dimitri è tempo di chiudere il cerchio.

Venti metri

T-90AM.
Un mostro da quarantasei tonnellate, milleduecentocinquanta cavalli, corazzatura kontakt-5, cannone lanciamissili da 125mm. Quarantadue proiettili e sei missili nella pancia del T-90AM.
L’ultimo dei mostri su cingoli.
Tre uomini compongono l’equipaggio, capocarro, cannoniere, pilota.
Dieci capocarro ricevono per radio l’ordine, l’esitazione lascia il posto all’automatismo dell’addestramento, l’ordine rimbalza via interfono al cannoniere che imposta sul computer di tiro la sequenza e le coordinate.
Poi il mostro si anima dotato di vita propria, il computer sposta cannone e torretta sull’obbiettivo, nello stesso tempo il caricamento automatico scivola nell’alloggiamento tre proiettili HESH scelti dalla santabarbara del mezzo.
Nell’HUD del cannoniere lampeggia la scritta “bersaglio acquisito”, l’uomo individua sul touch screen l’icona di fuoco in automatico e lascia nelle mani del processore il successivo lavoro sporco.
Schierati a protezione della Piazza Rossa, in fondo alla Ilynka prospekt, i dieci mostri allineano il tiro sulla massa.
Appena qualche secondo dopo fanno fuoco.
Il potere di separazione dell’occhio umano non ha la possibilità di cogliere i proiettili scagliati a 1800 metri al secondo, la carica HESH fa il suo dovere e all’impatto libera il tritolo di cui è imbottita l’ogiva.
Il metallo fuso assieme all’esplosivo falcia la folla.
HESH, High Explosive Smash Head, letteralmente.
Carne violata, bruciata, frantumata , disintegrata fino alle molecole.
Questo succede.
La prima salva apre un varco di schiuma rossa sul selciato elegante del viale, lungo la scia delle cannonate gli esseri umani non sono più distinguibili, rimane poltiglia.
Ma questo non basta, non può bastare, l’enorme massa si ricompatta, la voglia di vendetta, di altro sangue, ricompatta il desiderio di distruzione.
Attaccano di nuovo.

Alzo zero, contatto

Ivan Ratoff accende l’ultima sigaretta estraendola dall’elegante astuccio d’oro, sussulta leggermente quando la terza scarica fa vibrare i vetri blindati delle finestre che danno sulla Piazza Rossa.
Sulla scrivania, appallottolato, il messaggio di Gudenko, lungo la spina dorsale una coppia di scorpioni risale lentamente, in cerca di un punto preciso per piantare i pungiglioni.
Lui lo sa.
Ratoff lo sa.
Afferra la ricetrasmittente appoggiata sul lungo piano di mogano, la voce di Gudenko è stranamente tranquilla, una pacata consapevolezza.
– Dica generale.
In sottofondo urla lontane, grida ovattate, i feriti, i sopravvissuti.
Ratoff lo sa, l’ha sempre saputo, con calma dà l’ordine.
– Faccia innestare le baionette.

Varie ed eventuali

Spalare neve ti spezza la schiena ma aiuta a riordinare i pensieri.

Lavorativamente stiamo crescendo, il che oggi, proprio oggi è un cazzo di miracolo.
Non esiste modo affidabile di recuperare piccole somme insolute, in pratica se uno ti deve diciamo entro i mille euro, ecco scordateli.
Spariti, svaniti, volatilizzati.
Mi hanno detto che in Svizzera vai con le fatture alla POLIZIA, poi ci pensano loro.
Cristo santo, ci riescono quei quattro balordi montanari, noi no.

Spalare neve.
Le mani sotto i doppi guanti non le sento più.

Vorrei scrivere qualcosa di vero, ma non riesco a trovare il tempo, una mail in settimana mi ha rivitalizzato un attimo, ho bisogno dello stimolo giusto.
Il coach di mio figlio mi manda un w.app “mi dicono che in realtà NON sei un giornalista sportivo, avresti dovuto.”
Ok, grazie, ci mancherebbe, ma i commenti alle partite della domenica, non sono propriamente quello che speravo per la mia carriera di scrittore.

Fiato corto, la neve PESA da morire, la vedi leggera nel cielo, ma cazzo.
Poi, dopo.

Mi manda sms (esiste ancora qualcuno che lo fa) e mi chiama endless love.
Le donne, altro che la fusione fredda, loro sono il vero mistero.
Si vedrà.
Ma invece di mollarmi sul più bello quindici anni fa? Pensarci un pò meglio pareva brutto?
Adesso è TARDI cazzo, sono stanco.

Gli scarponi fradici, freddo, inizia a far buio.
Inizia pure a piovere e la neve si trasforma in pantano lurido.

Quelli si fanno da soli il presidentedellarepubblica.
Un tizio di mille anni, ok pare un galantuomo, ma che neanche sospetta dove viviamo, COSA significa vivere QUI e ORA.
Puttanatroia.
Per quello che conta.
La gente è isterica, un tipo che conosco, bravissimo ragazzo dà del fascista al suddetto coach.
Parliamo di minibasket per undicenni.
Gli dà del fascista, urlando davanti a tutti.

Ripongo la pala, lo spiazzo è abbastanza pulito, ho il fiatone e il polso sinistro mi fa male da due settimane.
Invecchiare fa schifo.

Cosa stiamo diventando, chi sono i cialtroni che ci governano e non vedono, perchè siamo a questo punto.
Lei come sempre mi fa pesare che avremmo dovuto cambiare paese.
Lei come sempre mi fa pesare la qualunque e dice di sentirsi in trappola.
Lei.
In trappola.
Io mi spezzo la schiena dodici ore al giorno e lei è in trappola.
Fedi tu mi devi un paio di consigli di quelli buoni.

Ora vado, ma, se dovessi sparire cercatemi in Sicilia.
Perchè?
Semplice, esistono tizie che si portano dietro occhi di un verde imbarazzante.
In effetti lo so.
Sono un cialtrone anch’io.