Fede

Io ti capisco Fede, ho passato metà della vita in piscina, una vasca dopo l’altra, un chilometro dopo l’altro. Cloro, occhi che bruciano anche con gli occhialini, la fatica di uno sport in cui sei sempre solo con te stesso, una bracciata dopo l’altra, un pensiero dopo l’altro, il cronometro sempre e comunque alle costole.
Tutto il resto del mondo ha una vita, tu hai una vasca lunghissima da attraversare nel minor tempo possibile, sempre in ritardo sulla stronza tabella di marcia.
Una bracciata dopo l’altra un respiro pieno d’acqua dopo l’altro.

Fede, io ti capisco molto bene.

After the boys of summer (per Sara Tommasi)

Finisce il cd, accendo la sigaretta.
Corte raffiche di vento ghiacciato s’insinuano attraverso le guarnizioni consumate dei finestrini dell’Alfa di pattuglia.
Il cadavere è sempre lì, nessuno l’ha spostato, nessuno sa bene come comportarsi, aspettano quelli del RIS, la scientifica in banda rossa.
Spalanco la portiera e Terrasini soffoca un sospiro trattenuto a stento, per la quarta volta mi alzo dal sedile della gazzella, per la quarta volta stringo il bavero del piumino.
Lungomare di Rimini, fine Novembre, attraverso la strada che costeggia la sterminata distesa di stabilimenti balneari, sabbia umida, anfibi che affondano al tallone e un lenzuolo bianco.
Macchie rosse, gocce e terra grigio chiaro, sono davvero stufo di scoprire teli dalla faccia della gente.
L’odore è acre, umido di stagione, legno in contrazione sotto la spinta delle particelle d’acqua e salsedine, il tutto condito dai residui di birra e cibo da fast food disseminato un pò ovunque.
Il brigadiere Sarigu accenna per la quarta volta il saluto mentre mi avvicino al cadavere.
– Cristo Sarigu.
Certi carabinieri sono così, capita di dover mollare un’urlata, lo faccio senza cattiveria, in fondo sono bravi ragazzi, semplicemente sono privi della lampadina magica.
Vincenzo Sarigu ne ha visti troppi pure lui e forse questo ha contribuito a spegnergliela del tutto, la lampadina.
Una curioso mix di suoni campionati e accordi slabbrati, chitarre a perforare, voce gutturale.
Da una finestra, le note sparate lungo tutto il viale, alzo la testa un attimo prima di sollevare il lenzuolo, la musica non cessa di assordare, scoppia via.
Sei mesi fa arrestammo nell’ambito di un blitz antidroga un diciassettenne di Riccione, due omicidi tra le mani da bambino, quattro pistole cariche sotto il letto e una quantità di droga nascosta in cantina, tra le bottiglie di Trebbiano del nonno.
Disse che non aveva avuto scelta, che se non avesse cominciato a fare quello che faceva sarebbe impazzito di silenzio, disse così, le voci nel silenzio urlavano.
Era strafatto di ecstasy quando lo prendemmo, irrecuperabile sentenziò lo psichiatra.
Io lo sapevo cosa intendeva.
Il delirio metallico prosegue la sua corsa, vedo il ragazzo stringere i pugni in camera sua, agitarsi al ritmo della musica assordante.
Una specie di rito per cacciare le voci.
D’estate queste cittadine traboccano di gente, di luci, di vita, tre quattrocentomila persone in più rispetto al resto dell’anno.
L’effetto privativo sulla popolazione locale alla fine della stagione è devastante, i giovani patiscono ansie e depressioni da casa di cura.
Il risultato.
Droga, alcool, corse suicide in macchine sempre più veloci, omicidi.
Le voci urlano nel silenzio, esigono il loro tributo.
La pioggerella è talmente sottile da non arrivare a terra, attraversa le ossa.
Sollevo il lenzuolo, lei è ancora lì.
Di nuovo l’occhiata dei due paramedici, pensieri distanti.
– Cosa cazzo cerca ancora, lasciala stare quella poveraccia, fiol d’un can.
Diciannove, venti, slava di sicuro, trucco pesante, verde spalancato sul cielo più grigio che abbia mai visto.
E sì che sono di Milano, dovrei intendermene, ma questo cielo, questo.
Ribolle cattiveria.
La frase entra così, senza un nesso logico, cattiveria allo stato puro, un’entità solida, schiacciata per terra dal cielo da un dito gigantesco.
Ha uno squarcio appena sotto il mento rilassato, in verticale, fino allo sterno scoperto, attraverso la linea decisa dei seni rifatti a regola d’arte.
Capire.
L’occhiata dei paramedici, lo sguardo di Sarigu, la pioggia.
È qualcosa che va al di là del semplice omicidio di una prostituta ucraina, che ha a che fare con l’usare, gettare via, ricomprare, usare.
Sistemo la calibro nove alla cintura, un oggetto vero, definito, attraverso la rete di pensieri sfumati che non riesco a sciogliere.
Paradossalmente un oggetto di morte.
Questo posto è il regno dell’usa e getta, macchine, telefoni, case, vestiti, persino il mare è ridotto ad una massa compatta che all’inizio di ogni stagione balneare viene filtrata, scomposta dai depuratori e reinserita senza imperfezioni.
Rimane il puzzo di morte.
Terrasini dice che a volte fatica a capirmi, se immaginasse che a stento capisco me stesso.
Solo che rifiuto di abbracciare l’idea che siamo tutti ridotti a questo, che l’umanità sia così cattiva da non accorgersi del male che circola, s’incista, sciama come un cancro nutrito dall’ultimo modello di telefonino, dal viaggio di lusso nel villaggio esclusivo ai margini della baraccopoli, dalle puttane bambine da cinquecento euro all’ora, col naso che cola bianco sulla scollatura Cavalli.
I bambini senza libri sugli scaffali e due monitor sulla scrivania, le mamme e i gin tonic, i papà e il BMW col satellitare acceso perché me lo sono sudato Cristodio.
Dove siamo arrivati.
Dove andiamo.
Ora.
La puttana ha un piccolo tatuaggio sul polso destro, un alone violaceo le incornicia l’osso, l’inizio inequivocabile della decomposizione.
– Ti vedo.
Mi giro di scatto, cazzo mi recita a memoria, in piedi, piantato con le mani sui fianchi. Terrasini osserva e sputa sentenze.
– Smettila capitano..
Il silenzio, le spiagge vuote.
-Francè, stammi su di dosso dai, cristo che giornata.
Incide il suo personale percorso sulla sabbia bagnata.
– Non farti sangue amaro, quante ne troviamo di queste all’anno, dieci, quindici? Non fanno esattamente un mestiere tranquillo. Neanche da dire che lo facciano per disperazione, in genere vengono da famiglie abbastanza agiate, insomma niente miseria nera, arrotondano.
Eccolo lì il punto, eccolo lì.
– Arrotondano Francesco, cioè la danno via al primo venuto per avere qualche soldo in più in tasca. Studentesse che atterrano a Rimini al venerdì, tutte con in tasca la denuncia fotocopiata dello smarrimento del passaporto, in modo da non potere essere identificate. Fanno quello che devono fare e ripartono la domenica con in tasca mille, duemila euro.
A volte però il pappa va fuori di testa e le apre come un capretto. Dove la vedi la logica di tutto questo Francè?
Altro sospiro, sigaretta e sorriso amaro, è abituato, a volte usciamo a bere qualcosa in uno dei pochi pub aperti anche d’inverno, io gli parlo di musica, lui mi parla della Sicilia, di Lipari, delle battute allo spada.
A volte è solo silenzio, dopo giornate come questa.
Stendo ancora una volta il telo sul volto della ragazza.
Le gocce di sangue schizzate a raggiera lungo il profilo del lenzuolo, perdo lo sguardo verso il mare all’orizzonte, noto dei puntini qualche metro più in là, ancora rosso.
Basta un segno con due dita, siamo a ridosso della duna che protegge il lido dalle mareggiate, le macchie ora sono più numerose, sparpagliate attorno a numerose orme fresche.
Scaliamo a fatica, affondando nel silicio sbriciolato.
Il ragazzo è seduto dall’altra parte ai piedi della duna, un grosso attrezzo ricurvo appoggiato al suo fianco.
Ci vede e si alza, nella destra un revolver a tamburo.
Dov’è la logica in tutto questo, siamo qui da quasi mezzora, nessuno ha visto, sentito, e lui è qui.
– Posala, ragazzo, dammi retta.
Francesco nella sua migliore interpretazione del carabiniere paterno, quello che dà consigli gratis.
Non servirà.
È stravolto da una qualche droga sintetica e si vede, è in t-shirt e suda come dopo una corsa a ostacoli.
Non riesco, non mi viene niente.
– L’amavo lo sai?
I centimetri verso il nostro baricentro si annullano a rallentatore, la stramaledetta canna si alza inesorabile.
– Lasciala cristo!
Coperto di sangue, la maglietta, i jeans, le Nike fluorescenti ultimo modello.
– L’amavo e lei faceva la puttana.
Percepisco il lampo prima dello sparo. Il ragazzo piomba all’indietro schiantato da un ariete infuriato. Ci giriamo e Sarigu è lì.
Bianco come un cadavere, la Beretta che fuma cordite, bandoliera di traverso e pantaloni neri pieni di sabbia.
Respira ancora, cerca con la mano qualcosa nell’aria, piccole bollicine rosse ai lati della bocca, muore.
Terrasini urla in faccia al brigadiere tutta la sua incazzatura.
Vado verso la massa grigia in movimento, l’attrezzo è una specie di falcetto affilato, il mare continua la corsa verso riva, piccole onde, schiuma bianca e alghe nerastre.
Con la coda dell’occhio le tute bianche della scientifica, finalmente sono arrivati e il cerchio è chiuso.
Cazzo che giornata, piena di silenzio.
Non mi vengono canzoni, neanche una.
L’acqua puzza anche d’inverno.