Morning glory

Per Gioia, che mi legge.

Lasciare il piumone è l’impresa più ardua.
Scivolare fuori dal letto nell’aria fredda senza svegliare loro due che, inevitabilmente, dormono sullo stesso cuscino attaccati.
Come sempre le attraversa il viso un ciuffo biondo balzato fuori chissà da dove, segue la curva del naso, lambisce leggero le labbra carnose, si adagia sul collo.
Come sempre è attorcigliato in una posa complicata, le gambe da una parte, le braccia dall’altra, il busto di traverso, le labbra – identiche a lei – leggermente aperte in un respiro pesante, come solo i bambini perennemente raffreddati dall’aria fetida di Milano.
Muovo qualche passo nel buio, guadagno la porta, sulla soglia è solo un fiato frettoloso:
– Stai attento.
Schiocco un bacio all’oscurità indovinando il suo profilo.
Attraverso la tapparella il gelo di gennaio, la nebbia di gennaio, spessa, ovattata.
Mi vesto con calma, gesti meccanici, consueti, la calzamaglia sotto i pantaloni con i tasconi, gli scarponi pesanti, il pile.
Il primo caffè sarà in ufficio, per ora solo un paio di biscotti, yoghurt alla frutta.
Fuori.
Guido con calma il pickup carico lungo la tangenziale, l’alba sorge compatta di un grigio assoluto, la nebbia appare e svanisce a banchi, i termometri a led dei grattacieli ai lati della striscia, meno tre, meno quattro.
Il freddo penetra, dentro.
Il lavoro, la famiglia, stai attento.
Con la coda dell’occhio osservo le altre macchine, guidatori imbacuccati, radio accese, qualche sigaretta, sguardi tesi, contratti.
Il paese sprofonda in una fossa buia, di morchia putrida.
Nessuno è al sicuro, nessuno sa se tra un mese avrà ancora un lavoro, nessuno. Scaccio il pensiero scrollando la testa inconsciamente, il buio solido rimane appeso in fondo al cuore.
Stringo il volante e la mascella, un’altra giornata per arrivare da loro, le carezze, i sorrisi prima di cena, i giochi sul pavimento della cameretta.
Fare l’amore in silenzio per non svegliarlo, ritrovarselo comunque nel lettone, calci nella schiena e manate in piena notte.
Un figlio ti stravolge, la famiglia ti riempie l’anima di responsabilità scavate dal profondo, che neanche avresti mai sospettato di possedere.
Osservi di fronte alla macchinetta i colleghi più giovani, spavaldi, fanno le otto ore, aperitivo e discoteca, alla mattina freschi come rose.
Non esiste stanchezza paragonabile a tirare su un figlio, al semplice dubbio di essere in grado di farlo.
Nessuna.
Eppure nessuna soddisfazione più grande nel vederlo fare un gol, sfrecciare verso di te con un dieci sul quaderno.
Nessuna.
Il pickup risponde bene, una mano alla sintonia della radio, sistemare meglio la cintura. Poi quel rumore, sottile nell’aria tiepida dell’abitacolo.
Ssshhhclick.
L’oggetto nero sul sedile del passeggero si anima, una luce verde sul lato, lo impugno, indosso l’auricolare, schiaccio il tasto.

Enrico Fulgoni porta il furgone a tallonare la Fiat Freemont al centro della carreggiata, le altre tre autocivetta del Gruppo sulla sinistra, sulla destra e davanti al muso del grosso SUV.
L’auricolare si anima:
– Base a uno, luce verde.
Fulgoni assapora il tempo che congela, poi risponde, appena una vaga idea di ansia nella voce.
– Uno a base, ricevuto, procedo.
La voce metallica dal trasmettitore sul sedile conferma senza esitazioni.
– Base a tutti, chiudete la rete.
Nello stesso momento l’uomo al volante  schiaccia a fondo l’acceleratore, il motore Toyota ruggisce e il muso urta violentemente il paraurti della Fiat. Le tre auto chiudono la trappola inchiodando a loro volta, nello specchietto Fulgoni osserva altre quattro macchine appena qualche decina di metri da loro mettersi di traverso con i lampeggianti accesi a bloccare la carreggiata.
Poi il riflesso prende il sopravvento.
Estrae dalla tasca del giaccone un Mefisto e lo indossa con un gesto fluido mentre con l’altra mano porta il furgone in una sbandata ben controllata, rumore di lamiera, puzzo di frizione.
Si china e raccoglie l’arma.
Spalanca la portiera e si catapulta all’esterno ancorando alla spalla un mini Galil con doppia impugnatura e doppio caricatore da quaranta .223 Remington, per un decimo di secondo il viso di suo figlio penetra, ma è solo un attimo, puntella lo scarpone sinistro sull’asfalto e ritorna a essere molla in trazione.
Dagli altri tre lati della trappola esplodono cinque uomini, antiproiettile, armi a tiro rapido come la sua, viso distorto dal passamontagna, uomini del Gruppo, estrema ratio.
Enrico Fulgoni si avvicina lentamente un centimetro dopo l’altro, cerca di coprire con lo sguardo ogni possibile spazio di fuga, nessuna reazione dal SUV.
L’urlo lo coglie impreparato, dalla sua destra.
– Carabinieri, uscite con le mani in vista!
Contrae le dita sulla fibra delle impugnature, arrendetevi, arrendetevi, per piacere arrendetevi.
Non basta, non può bastare, non con belve di quel tipo.
Vengono da Rosarno, provincia di Reggio Calabria, vengono per stabilire una testa di ponte con altre ‘ndrine presenti sul territorio, a differenza degli altri hanno focalizzato tutto il loro potere sul commercio internazionale di armi da guerra.
Massimi gradi gerarchici ‘ndrina Strangio, un padrino, quattro vangelisti a coprirgli le spalle.
La più feroce delle organizzazioni criminali, ramificazioni in ogni parte del mondo.
Non può bastare.
Quattro portiere si aprono all’unisono.
Cinque uomini a braccia alzate, facce dure, feroci.
Nove mani vuote.
Nove.
Mark 47 granata incendiaria al fosforo bianco, dotazione truppe d’élite esercito americano.
L’inferno in un barattolo.
Fulgoni è un vetro spezzato.
– Non farlo, non lo farai, posa quell’affare del cazzo, posalo ora.
Lui ridacchia, una perfetta imitazione di uno Scarface da trivio.
– Vuoi morire sbirro? Lo sai cos’è questo vero?
Con un guizzo afferra l’anello della spoletta e dà una strappata orizzontale.
Nell’attimo stesso in cui inclina il braccio per lanciare uno degli uomini della macchina di destra allinea la tacca dell’alzo e prende una decisione.
La testa del mafioso riceve d’infilata due blindati, il primo s’infila nell’orbita sinistra, il secondo penetra nella tempia, ambedue scavano un cratere d’uscita, l’uomo crolla come un sacco di stracci senza un lamento.
Il barattolo vola sull’asfalto, il barattolo senza più controllo sulla leva di armamento emette un tlock sordo impattando tra le auto.
La piccola carica esplosiva fa il suo dovere, il fosforo erutta a 2800 gradi schizzando ovunque lacrime di morte.
Lacrime e morte.
Non esiste cura, non c’è antidoto, ci sono consigli che vengono dati per un incidente industriale, cose che vagheggiano di bagni nel bicarbonato di sodio, lavaggi immediati dopo l’esposizione fisica della parte.
Sono stronzate.
Questo pensa il tenente Enrico Fulgoni.
Stronzate, questo tipo di orrore non ha una rimedio, non concede speranze.
Appena un secondo dopo ha in testa un nome.
Quello di suo figlio.
La sostanza si appiccica, invade, penetra. La sostanza brucia.
I corpi ardono illuminando l’asfalto, torce bianche splendenti nelle prime luci dell’alba.
I corpi urlano.
Ma il fosforo chiude il tempo, scava le trachee, distrugge ugole, corde vocali, carbonizza esofago e parti molli.
Tre uomini del Gruppo si salvano gettandosi nella scarpata oltre il guard-rail, due vengono investiti in pieno dal muro solido di calore, crollano dopo una manciata di secondi durante i quali si agitano come pupazzi senza rumore.
Al centro di ground zero i quattro criminali superstiti sperimentano un calore nova, la pelle vaporizza, il cranio esplode per la pressione di ebollizione, le ossa liquefano.

Faccio appena in tempo a lasciare il fucile d’assalto, con la coda dell’occhio ho percepito la contrazione del dito sul grilletto.
Ho preso la mia decisione.
L’esplosione è una mazzata violenta alla base della schiena, in qualche modo riesco a rimanere in piedi ad allontanarmi dal rogo.
Fuggire.
Recuperare il respiro.
Stai attento.
Mi giro lentamente, inferno eterno, terminale, conclusivo.
Uno degli uomini scampati alle fiamme, corre verso di me, si leva il cappuccio nero, butta l’arma sull’asfalto.
Rizzo, Giovanni Rizzo, sottotenente.
Sguardo stravolto dallo choc, gesti convulsi, uomini al limite dell’addestramento perfetto, ma uomini.
– Cristo tenente, Cristo che casino di merda.
Mi osserva, sbianca di colpo.
– Tenente, si sdrai, si sdrai chiamo un’ambulanza.
Non ci arrivo.
– Sono morti Giovanni, morti.
Indica da qualche parte sotto di me, l’asfalto?
– La gamba tenente, la sua gamba.
Un pezzo di lamiera, trenta, trentacinque centimetri, dalla coscia. Il sangue spruzza come da un rubinetto al massimo della pressione, ho già visto questa cosa l’ho già vista.
Arteria femorale.
Gli sorrido, lentamente il dolore si propaga.
– Inutile Giovanni, è inutile, non faranno mai a tempo.
Mi cedono le ginocchia, ruvida, la superficie ghiacciata sotto le dita delle mani, un lago cremisi contrasta col grigio del cielo.
– Tenente, diocristo tenente.

Fa il secondo gol dalla destra, con gran tiro di collo pieno, si volta verso sua madre che balza in piedi.
Bacia la ragazza con delicatezza, quasi timore, sul pianerottolo al riparo dalla pioggia che scroscia violenta, lei gli prende la nuca, lo attira a sé ancora.
Tiene le mani strette l’una sull’altra, le nocche sbiancate, il ciuffo biondo ribelle sul collo. In fondo all’aula i professori stringono le mani al ragazzo, lei soffoca un singhiozzo, non vuole farsi vedere da lui, alza gli occhi. Il ragazzo apre le braccia, gli amici applaudono.
Prende tra le dita tremanti la foto incorniciata, la divisa nera, lo sguardo severo sotto al berretto, l’accarezza forse per l’ultima volta, poi la chiude in un cassetto con calma.
Si gira verso lo specchio, cerca nell’astuccio un bel rossetto.

Rizzo apre la bocca, non lo sento più da qualche minuto.
Non sento più nemmeno il freddo, lui si agita.
Lo fisso negli occhi neri e annuisco.
Ok, ora vado.

1995

Appena una manciata di minuti dopo la sirena sulla partita dei piccoli, come spesso accade, tocca ai papà mischiati agli amici di turno DELLA coach. Ci scaldiamo per qualche minuto, tiri da fuori, terzo tempo, qualcuno schiaccia. Un fiorire di ginocchiere, gomitiere, fasce alla caviglia, scarpe rigorosamente alte.
Lo spirito è sempre alto, il fiato meno.
Si fanno le squadre, dallo spogliatoio emerge una testa mezza biondo cenere, mezza castana, capelli alle spalle, un metro e settanta, un viso nordico, ricorda vagamente l’Anna Falchi.
Mi giro verso coach Lore:
– Questa?
– Amica mia, gioca in B, occhio.
– Occazzo, è carico il defibrillatore?
Ride di gusto, io meno.
Si presenta a tutti sorridendo, Marzia, piercing al naso con le due palline, una roba maori al lobo destro, tatuaggi, canotta Heat di LeBron.
Palla a due, si comincia, si suda, cozzare duro con gli altri pezzi grossi, siamo tutti sul metro e novanta, molti anche parecchio sopra il quintale.
Roby terzo tempo, mi frega sulla destra, lo sbilancio con una spallata, giochiamo duro, piuttosto street basket che non roba da palazzetto. Grugnisce, in fondo non faccio un cazzo e me la cavo con un pò di mestiere, dove non arriva il fiato.
Marzia riceve fuori, non ci pensa un secondo, vede il cesto, tira, tre punti, cazzo.
I papà arrancano, ovvio, ma siamo sotto di poco.
Massimo è un fiato cortissimo:
– Occhio, chiudila.
Un guizzo, ha deciso di farsi vedere, penetra centrale, sguardo su di me, fa paura da come è sicura sul palleggio.
Finta e cambio mano, fa per partire a canestro e mi piazzo in mezzo solito limite sfondamento/ostruzione, incassa duro sulla mia spalla sinistra, molto duro, rimbalza indietro culo a terra.
Fallo, pare incerta.
Tendo la mano e la tiro su:
– Tutto ok Marzia?
Ridacchio.
– Ok, ok.
Però ha qualcosa in fondo alle pupille verdi.
Azione dopo, questa volta viene da destra sul mio lato preferito, Ema tenta un blocco ma non abbocco sono su di lei, punta la linea di fondo e io faccio un passo a coprire.
Fregato.
Passa la palla dietro la schiena, andando a canestro mi rifila una gomitata al fianco che mi piega in due.
Grandissima.

Fine partita, noi stravolti, loro decidono dove andare a farsi un aperitivo.
Cristo mi fa male ovunque, stasera tachipirina e ghiaccio.
Si avvicina, salvietta al collo, ride.
– Siete tosti, non pensavo.
Ci scambiamo un cinque.
– Ci si prova, di che anno sei scusa?
– Novantacinque, tu?
Non sono sicuro di volerglielo dire, ma, poi perchè.
– Io ne ho stronzissimi quarantotto.
Lo sguardo di tutti i ragazzini quando scoprono che esiste qualcuno di parecchio più vecchio che non sia un pensionato col bastone ma che indossa una maglia dei Foo Fighters.
– Oh.
Fa lei.
E per oggi può davvero bastare.

Colors

Giallo canarino su argento splendente, un insieme quasi accecante, a suo modo magico. Tu immagina un recipiente alto un metro circa, acciaio leggero, argento appunto. Sopra una bella ogiva giallo canarino, molto, molto carino il contesto, Soddisfa la vista, anche il tatto, liscio, freddo.Spostano questo cilindro con cura, qui sul piazzale, nemmeno troppa attenzione, in fondo, ricordati, è acciaio no?
Ma chissà come, chissà perchè, uno dei tizi ha un cedimento, la schiena, gli manca un’ora di sonno, una litigata di troppo con la moglie stamattina davanti al caffè, un raggio di sole che gli buca lo sguardo al momento sbagliato.
Fottutamente sbagliato.
Il recipiente, che poi vedi tu, da dentro spingono duecento bar e cazzo sono TANTI, insomma il cilindro che puoi chiamare tranquillamente bombola, cade giù da quel metro e sessanta di troppo, la ribalta del camion del cazzo al momento sbagliato del cazzo.
Solo che dentro non c’è, chessò ossigeno, azoto, argon, insomma quei bei gas pacifici che non disturbano, fanno poco rumore, nessun odore.
No.

Dentro hai Fosfina.

Ed è già successo un’altra volta, ma non qui e l’altra volta era partita una sirena che ti raccomando.
Sono ancora qui a raccontarlo, ma ti giuro, restare calmi è stato difficoltoso.

“La fosfina è altamente tossica; può uccidere facilmente anche a concentrazioni relativamente basse.” (cit. Wiki)