Messia


My suggestion, is that you mind
your business, ‘cos right now i’m dangerous

Respiro lentamente aria acida di paura.
Sebbene il gelo del riscaldamento interrotto paralizzi l’intera scena, quattro o cinque gocce di sudore scivolano lungo la schiena bagnata.
Movimento.
Li avevo pregati, scongiurati di rimanere immobili.
L’uomo si accorge di essere stato visto e si scompone in piccoli frammenti di panico lucido. Chiudo lo spazio ricaricando l’AK, striscia sul marmo italiano, insetti senza speranza.
Sollevo la bocca da fuoco con una mano sola, perde il controllo degli intestini, prevedibile, grottesco il lago di urina che si allarga sotto i calzoni.
È un sibilo rauco che nasce spontaneo, gli occhi dell’uomo stravolti dalla follia.
– Ora muori.
Una lunga raffica, il caricatore del fucile d’assalto sgrana tempesta sul corpo grassoccio della guardia giurata.
Ribollire di fluidi, frammenti ossei scaraventati in aria dall’impatto dei blindati, corti lampi sfuggiti allo spegnifiamma bruciacchiano brandelli di divisa.
Abbasso il Malish, urla, altrettanto prevedibili, altrettanto grottesche. Gli altri, i venti ostaggi di questa stronza banca.
Ventuno era un numero impreciso, venti è più consono alla sete di lucida perfezione, un insetto in meno, l’angolo della discesa verso l’inferno scala qualche grado.
Ricomincia.
Un suono metallico, terribilmente irritante, hanno sentito gli spari, hanno capito.
Immagino cecchini con gli indici contratti sui grilletti cromati dei grossi calibri. Immagino agenti speciali dell’MDV in giacca e cravatta, mascelle squadrate e cellulari in vibrazione continua. Grassi poliziotti metropolitani al riparo delle bianche e verdi con le portiere spalancate, le nove millimetri protese, i berretti calcati sulla testa.
Non lo sanno, non possono saperlo, il centralino della filiale squilla impazzito, ora di farla finita, ora di farla finita del cazzo.
Mi avvicino passando in mezzo ai corpi sdraiati, respiri leggeri, macchie di vapore che si allargano sul pavimento gelido, colpo d’occhio sulle pellicce candide, sui colbacchi di pelo di lupo, sulle valigette Gucci, il mio ghigno migliore da predatore.
Plastica, numerosi tasti, spie disinserite, un solo insistente brillare a ogni trillo elettronico, un occhio rosso, malato, intermittente sulla tastiera bianca.
Glock, impugnatura e corpo centrale in polimeri induriti, parti metalliche ridotte all’osso, traccia metal detector inferiore a un mazzo di chiavi.
Il centralino esplode letteralmente in ogni sua parte, niente più trillo, niente più occhio rosso, niente più di niente.
Tempo.
Proporzione lineare in rapida soluzione, un semplice banale accostamento matematico, ho interrotto definitivamente il contatto, il tempo si avvicina allo zero in maniera esponenziale.
Tempo meno trenta.
Uomini in nero, flat-jackets, elmetti, maschere antigas, mitragliette a tiro ultrarapido, frusciare veloce di anfibi sull’asfalto.
Tempo meno venti.
Sorrido nell’aria gelida, riesco ancora a godere di tutto ciò, è così giusto, così incredibilmente perfetto, hanno voluto, hanno cercato in tutti i modi di avermi, mi hanno avuto.
L’ultimo assalto alla vetta del dolore.
Mi appoggio alla canna del fucile d’assalto, intorno solo sguardi di pecore corrotte.

Tempo meno quindici.
La voce, quella voce.
Lui è qui.
Generale di brigata Anatolij Gradenko, il pezzo più grosso di tutti, impugna il megafono con la sicurezza di uno scorpione che solleva il pungiglione.
Il tempo congela, uomini in nero appostati a protezione, perimetro difensivo totale, lui è il pezzo più grosso, niente lasciato al caso.
– Ivan.
Quell’accento, Urali centrali, quella voce leggermente annoiata, sempre e comunque infastidita.
– Problemi Ivan, sempre e solo problemi, da analizzare, da smembrare, da risolvere, hai sempre e solo dato problemi. Dove sta la purezza in tutto questo? Qual è la logica razionale che la tua mente osa perforare?
Avanza, il lungo cappotto dell’impeccabile divisa marrone si apre leggermente all’incedere, riflesso abbacinante sugli stivali da cavallerizzo.
Perfino dall’interno della banca la luce mortale di quegli occhi scintilla grigio acciaio.
Penetra.
– Ivan, soldato, figlio.
Alzo l’AK, baricentro centrale, bersaglio grosso.
– Benvenuto generale.
Arretro lentamente verso il grosso oggetto che ho trasportato all’interno con il transpallet dotazione DHL, ultimo cavallo di Troia.
Sollevo il telone, il mostro si libera.
Testata nucleare tattica SS-18, nome in codice Satan.
Il generale sorride, gli occhi freddi aprono totale soddisfazione.
– Figlio, questo atto così definitivo, così unico nella sua perfezione. Mi sorprendi Ivan, hai compreso lo spirito del mio insegnamento, finalmente hai compreso.
Il padre si avvicina, posa lentamente il megafono sul pavimento, le braccia si aprono nel più rassicurante dei gesti, le mani guantate di purissima renna cercano il mio viso.
Attimo dilatato, solo un rapido brillare di luce guizzante.
La lama da combattimento appare nelle sue mani, materializzarsi improvviso di morte, CQC ultimo stadio, nessuna possibilità di errore apparente.
Attimo che riallinea le percezioni del tempo.
Accade.
Parata bassa, torsione verso l’alto, rumore di cartilagine e ossa spezzate, smorfia di dolore a deturpare il volto perfetto.
Respiri veloci, grugnire di sforzi, l’impeccabile divisa si piega sul marmo bianco, una strana espressione di assoluto stupore.
– Padre, sì, ora finalmente sono vivo. Guardali, guardali uomo.
Indico con un gesto le pecore sdraiate.
– Secoli di orgoglio, le steppe intrise di sangue, la mia terra, uomini temprati dal freddo divenire di elementi sempre più duri, sempre più letali, svanito. Tutto semplicemente svanito in una nuvola di cocaina, Mercedes, telefoni cellulari, puttane da mille dollari l’ora. Ecco la tua purezza padre, eccola.
Scaglio lontano il fucile d’assalto, non ne ho più bisogno, mai più.
Abbassa lo sguardo, finalmente vede e va letteralmente in pezzi, svanisce nel gregge.
Niente più bordelli caldi generale, niente più caviale del Volga, niente più champagne francese versato su corpi sinuosi, niente più di niente.
Lascio correre lo sguardo attraverso i finestroni ghiacciati.
Indaco sulla città, un fulgido sole invernale pare accarezzarmi il volto, cristalli di neve incastonati come diamanti sui rami degli abeti, tutto ciò che ho amato, tutto ciò che è stata la mia vita.
Ho atteso l’alba con trepidazione, assaporato il cielo tinto di sangue, ho sorriso mentre le lacrime sgorgavano copiose.
Il generale singhiozza leggermente, mi avvicino e gli accarezzo la nuca lentamente.
– Padre.
Estraggo il compatto oggetto dalla tasca della giacca a vento, l’occhio rosso torna a vivere su un altro semplice meccanismo. Alzo la leva di innesco bordata giallo-nero, respiro, il messia è qui.
Tempo zero.
Luce.

Scrivere a quattro mani con una donna

Riflettevo.
Guardando una piccola parte di questa strada che ci divide, fin dove la retta grigia sembra cadere a strapiombo nel nulla. L’asfalto in alcuni punti luccicava sotto il sole di questa primavera che mi assomiglia.
Specchi minuscoli. E pensavo. Che magari anche tu hai provato a guardarci dentro, senza sapere cosa voler trovare.
Sei così lontano che mi sembra di toccarti.
E’ un controsenso, lo so. Continuo a rivivere i tuoi gesti, sento la lama affilata che mi accarezza l’orecchio, il mento e poi la gola. Cerco di immaginare la mano che stringe il coltello. Così grande, così forte. I tuoi crimini, così immondi. E i segnali che lasci per me. Parole che sono indizi e poi silenzi che sono intenzioni. Silenzi che sono intenzioni.
Vuoi che ti prenda? Vuoi cadere nel mio abbraccio di manette? O vuoi che mi arrenda a te e mi lasci scivolare nelle tue mani sporche di sangue?
E io, voglio prenderti? O voglio che questo gioco perverso duri per sempre? Sogni i miei occhi inchiodati su uno schermo mentre scavano tra i documenti delle prove? Mi senti quando sospiro stanca e spengo l’ultima sigaretta prima di archiviarti per poche ore nella notte?
E io, riesco a dormire senza vederti appoggiato sul lato di un incubo che continuo a chiamare?
Domande. Separate alla nascita da risposte come “sì” e “no”.
La strada, gli specchi, le mani, io e te. Dove sono quegli occhi, mio assassino? Cosa guardano adesso? E cosa vedono?

L’odore della carne violata.
Il puzzo acre della paura, gli occhi stravolti dalla follia, l’incredulità nello sguardo.
Mi sollevo sulle ginocchia, poi lentamente in pedi al centro del piccolo stanzino, muri sbeccati pitturati nero, sanitari consumati dal calcare e tracce organiche dimenticate.
Il sangue.
Lui è ovunque, la morte, lei è ovunque.
Sul pavimento, sulle pareti, sul soffitto.
Sollevo le braccia arrossate fino ai gomiti, schizzi sul petto, sulle guance, tracce di un sentore dolciastro sulla lingua, giù nella trachea ad ogni respiro.
La bambola scomposta ha intrapreso il cammino..
Occhi appoggiati con cura sul lavabo ad osservare, nervi sfilacciati in un reticolo penzolante, nere cavità come simpatico souvenir al centro del cranio.
La bambola scomposta è mezza nuda, il fisico scolpito dal ballo e dalla palestra guizza ora muscoli flaccidi, pesanti.
Rigor mortis in rapido scalare.
La profonda incisione a ipsilon scava l’essenza dell’anima, la cerca, la pretende, divora il fluido luccicante della vita, chiude il rito e lo esalta.
Soddisfatto, affondo ancora con un gesto inconsulto le mani nel suo essere prostituta in vetrina.
Raddrizzo il collo verso il soffitto e la risata gutturale sale al cielo.
– Ecco il mio tributo padre.
Strappo un pezzo di tessuto, lei non ne ha più bisogno, con calma inizio un preciso esame della lama, eliminazione sistematica delle impurità dall’acciaio, lo sguardo penetra la distanza, mi costringe a riaprire la mente.
Quella donna, la donna con la pistola.
È lei che ti cerca, è lei che ti dà la caccia.
Sorrido, bava giallastra sul petto, muscoli tesi allo spasimo sull’avambraccio sinistro, rapido guizzare della scanalatura centrale.
Da bere agli assetati.
Un’incisione netta, precisa, sangue a confondersi col sangue, il mio.
Intingo l’indice della mano destra, lo specchio rimanda un’immagine al di là di ogni ragionevole incubo, poche lettere sbavate.
Io ti adoro.
Arrivo amore.

La stanza. Questa stanza.
Ho sempre pensato che la nostra carne è solo il recipiente impacciato di un liquido rosso e pastoso. Qui la carne lacerata sembra una tovaglia sporca di sugo e vomito ammucchiata ai piedi del tavolo. Tutto questo sangue mi fa girare la testa.
La tua quinta vittima. La mia quinta ferita.
Ti cerco tra ciò che rimane di questo corpo violato e riesco a trovarti solo in ciò che hai portato via. La sua vita come mantello per i tuoi inverni inesauribili, la mia ragione come unica fessura di sole che ti perseguita.
Tu, attraverso lo specchio, mi dici. Mi ami di un sangue dilatato dalle dita che scrivono.
La tua strada per arrivare a me. La mia per arrivare a te.
Ecco che tornano. La strada, gli specchi, le mani. E le domande.
Io ti ucciderò?
Mi allontano, con questo odore nel naso che già ti assomiglia.
Mi manchi, amore.

Amala, uccidila.
Lo schermo rimanda incessantemente la stessa immagine.
Play, rewind, play.
Il viso della donna infranto dalla brutta luce di un neon azzurrino, corrotto, microfoni che si affollano sotto le labbra carnose.
Dischiuse.
La stessa parola ripetuta all’infinito, l’inizio di una domanda, gli occhi che cercano lontano, oltre la linea verde dell’orizzonte violato.
– Ispettore?
Amala, uccidila.
Sulle mie tracce, a braccare come un cane ringhioso, le zanne sguainate.
Stretta veloce.
Eppure, scorre rapido il desiderio, avere il suo corpo e berne l’essenza, fino a raggiungere assieme la casa del padre.
Nella stanza coperta di rifiuti l’unica luce proviene dal monitor LCD, l’unico vero alito di vita cristallina dal viso della donna.
Play, rewind, play.
Amore mio, ti amo.
Il pensiero nasce spontaneo, erutta alla base del cranio un torrente di piombo fuso, mi alzo di scatto osservando le mani serrate a pugno, la lama da combattimento sul piano di plastica del piccolo tavolo.
Afferro l’impugnatura alla base, fendente diagonale discendente, perfetta bisettrice rossastra al centro del petto, gocce impattano sul pavimento, scorrono lentamente lungo il braccio, direttamente sulla tastiera, fino a raggiungere l’omega.
Basta una piccola pressione, la mia carne, la tua carne, riunite con un semplice messaggio virtuale, un semplice invito alla mensa del Signore.
Perdona loro perché sanno perfettamente quello che fanno.
Sei è un ottimo numero, osservo la porta di legno marcito.
Ti aspetto.

Ho i tuoi occhi puntati contro. Sento che la pistola che stringo tra le mani potrebbe non essere sufficiente.
Siamo immobili, in questo spazio semi buio dove mi hai chiamata a te. Il nostro primo incontro.
C’è una forza uguale e contraria che annulla i movimenti. E le intenzioni.
Ti guardo. E un coltello senza mani che lo guidano mi lacera dentro. Dunque sei tu, amore mio. Era questo il colore degli occhi che vestiva gli incubi delle mie notti, questo il corpo che stringevo tra le gambe mentre la mia voce urlava no. Queste le mani, grandi, che giocavano con la mia bocca e la mia gola. Questo l’odore della tua assenza.
Sono qui. E qui sei tu. Siamo lontani dal rumore del dolore che hai seminato, lontano dai corpi straziati e dal fiume di sangue.
Qui e adesso la nostra unica possibilità. Ti prego. Tra poco sarà già troppo tardi.
Ma restiamo immobili.
Mi fanno male le braccia, amore.
Vedi? Sto iniziando a tremare. Dovrò sparare, lo so, lo sai.
Tremo di te. E di tutta la vicinanza che non toccheremo mai.
Eccola, la moviola. Del tuo sorriso. Che si apre lento, come un fiore di questa primavera che mi assomiglia. E poi giace, come un uomo stanco su un’amaca tra due alberi. Hai ceduto al sole, amore mio. Guarda. Le mie cinque ferite stanno bevendo alla fonte delle tue labbra. Adesso e per sempre. Resta così, amore mio. Anche ora che il proiettile ti sta spaccando il cuore.
Eccola di nuovo, la moviola. Della tua fine.
Inverni inesauribili che cadono e si frantumano come vetri luccicanti sotto i colpi delle mani chiuse a pugno. Un corpo vuoto a strapiombo nel nulla che ha ceduto al sole.
La strada, gli specchi, le mani, io e te.
Non ho più domande.
Solo una risposta.
Io ti amo.

Non provo dolore.
Lentamente passo le dita sulla ferita aperta al centro del petto, il contatto con il foro slabbrato mi regala un brivido di eccitazione.
Attraverso un velo di lacrime salate osservo la regina avanzare strisciando i passi leggeri di lato, punta la pistola a due mani verso il basso, una presa sicura, professionale.
Ad ogni rantolo respirato bollicine rossastre scivolano sulle guance andando a mischiarsi con la polvere del pavimento, morire per mano tua, estasi suprema della carne.
Con la mente racchiudo il pentacolo e la perfezione del Sei, allargo le braccia e le gambe, nella mano destra la lama scintilla per l’ultima volta la voce della luce di tenebra.
Si china lentamente verso la mia bocca, per l’ultima volta in questa forma posso scorgere quello sguardo, quel desiderio represso, racchiuso in un angolo buio.
Un attimo prima di scivolare via le sue labbra mi sfiorano, il sapore del suo amore s’insinua.
E mi libera.

L’entità energia Sytry abbandona il corpo e osserva la scena, il demone dell’amore e della lussuria pare giocare con i cristalli di polvere in sospensione, poi si sofferma sulla figura femmina scossa dai singhiozzi al centro della stanza.
È stata un’ottima parentesi terrena, l’involucro era potente ha donato sensazioni dimenticate, emozioni, passione.
Forse Lucifero, il portatore del tutto e della conoscenza, concederà ancora tempo, dopotutto l’entità si è comportata bene e i doni sono stati copiosi.
La figura femmina appoggia una mano sul viso dell’involucro, china la testa e si concede un lungo sospiro.
Sytry racchiude attorno a sé l’energia degli elementi e dei settantadue demoni, percepisce l’amore e disseta la bramosia di potere che ne deriva.
Poi si prepara ad un altro viaggio all’interno di un involucro diverso.

Pezzo del 2007 che ho ripescato/riapprezzato come forse non avevo mai fatto.
Grazie Tiz, ovunque tu sia.

Come ogni anno

Da sempre, che io mi ricordi, sono più devastato dopo le vacanze di natale, piuttosto che dopo quelle estive.

Io lo so il perchè, il mio inconscio sa che abbiamo svoltato, che l’Inverno ha svoltato.