Ambra

Esattamente lo stesso colore che ti porti in fondo agli occhi da sempre.
Non è cambiato, non si è spostato di un millimetro, così come la capacità sovrumana di apparire e svanire come uno Sparviero Klingon occultato.
Sei sempre tu e lo sarai sempre.
Con i tuoi telefoni, gli uomini che ti cercano, i sorrisi morbidi, gli sguardi veloci, qualche lacrima e l’acciaio inox 316L che ti porti dentro.
A coprire il tutto.
E finalmente, la sensazione meravigliosa di vedere tutto questo dall’esterno.
Ricordare, ridere. rivivere quasi con grazia.
Io sono cresciuto e tu sei stata parte di tutto questo, innegabilmente.
E inoltre.

Love Song

Sergio Di Falco si gira verso di me, di trequarti, non abbandona per un istante la presa sull’arma automatica che imbraccia con noncuranza.
Forse sorride, anche se la smorfia non raggiunge mai gli occhi grigi, le luci della strada si fanno più fioche mentre la notte lascia spazio a un
mattino velato di chiarore rossastro.
Sergio pare un tranquillo padre di famiglia in attesa dei figli davanti a una scuola di periferia, in realtà la canna del fucile d’assalto tradisce un calore tenace, un piccolo effetto Morgana rastremato all’imboccatura dell’inferno rivelato.
Bossoli d’ottone sparpagliati ovunque completano il quadretto di furia esplosa.
Parla e il tono della voce gli muore in gola, denso di stanchezza e strappato di paura.
– Tommaso, è stato, è stato un onore per me servire assieme a tutti voi.
Posso solo annuire fissandolo dritto.
Poi torno a posare lo sguardo sulla distesa di corpi disseminati qua e là lungo i marciapiedi sbeccati, falciati dai blindati, smembrati dalle
raffiche alzo zero, violati fino all’essenza.
Mi chiamo Tommaso Spada e una volta, prima che tutto perdesse significato, ero in Marina.
Sgombro la mente per focalizzare di nuovo la strada, non c’è spazio per i ricordi, non c’è più tempo per niente.
A uno a uno i corpi cominciano a rialzarsi.
Ancora una volta.

Il vigile urbano, sempre lui. Sembra guidato da un istinto primordiale, qualcosa che lo obbliga a essere al comando, davanti a tutti gli altri.
Sergio gli spara, per la terza volta, prima al collo poi mentre il tizio barcolla per la violenta cinetica, dritto in bocca tra i denti nerastri. Crolla come un involucro svuotato all’istante di tutto il contenuto.
Lui lo osserva, il corpo sussulta leggermente sull’asfalto, metà del cranio è ormai ridotta a una poltiglia informe.
Pompa nella carne ancora quattro cinque blindati, il corpo si placa.

Quattro bambini si staccano dal gruppo, più veloci, più decisi, si muovono a quattro zampe, assumendo una posa quasi felina. Spingono con forza sui femorali e atterrano in avanti sulle mani aperte.
Poi si fermano, alzano il viso e ringhiano verso Marco.
Lui pare non capire, diocristosantissimo sono bambini.
No, non lo sono più.
E attaccano.
Marco Evangelisti è un ex carabiniere, quelli del ROS, eppure in quel momento mentre alza lo Steyr hi-ready sono sicuro di vedere una lacrima solcargli la guancia destra, sono sicuro.
In realtà non credo che lo vedano neanche, non sentono il clack della leva di armamento.
Odorano il sangue che gli scorre nelle vene.
Niente altro.
Marco flette le ginocchia e lascia andare la prima scarica, due di loro si separano con un guizzo, gli altri incassano a metà busto, rumore sordo di ossa che si spezzano, pressione inversa che sprizza budella all’esterno.
Marco, come tutti noi, ha passato ore in una killin’ house, per essere pronto a tutto questo.
Fa un movimento quasi elegante, spalanca il braccio armato verso destra, aprendo la raffica alzo zero contro gli altri due.
Li investe a metà dell’ultimo balzo.
Occhi che scoppiano, crani in frantumazione radiale.
Finisce.
Marco vomita fiele sul marciapiede umido di fluidi.

Ti prego no.
Non di nuovo, dio ti prego.
Dio è morto e sepolto.
Francesca avanza verso di me per la terza volta, quello che rimane del vestito a fiori che le ho regalato due mesi fa le ricopre a malapena parte del corpo violato dai proiettili.
Alza le braccia nel medesimo abbraccio muto, quelle braccia che mi hanno accarezzato il collo, quelle dita che mi hanno seguito il profilo della barba sul mento, fin dal primo giorno.
Arranca trascinandosi sui muscoli spezzati, sulle ossa sfrangiate dagli impatti multipli, arranca e percepisco la sua sete giù fino al cuore.
– Ti amo, ti amo amore mio.
Non c’è assolutamente più niente di umano nella MIA voce.
Remington 870 Predator, calibro 12, Riot gun terminale, assoluto.
Primo proiettile in canna, Francesca ormai a centimetri, il suo viso stravolto, l’ombra della splendida donna di qualche giorno fa.
Amore mio, amore mio.
Poi, c’è solo la furia.

Long road to ruin (dedicato)

Interno pub, rumore di bicchieri, di sedie che si spostano, vociare confuso.

– Spiegami una cosa.
– Dica.
– Per quale motivo, quando ti inventi un faccia/faccia con una donna lo ambienti in un pub.
– Hai gli occhi di un verde imbarazzante.
– Sì anche tu, non hai risposto.
– Mi sento più a casa qui che non a casa.
– Quindi hai bisogno di un territorio amico per incontrare una donna?
– Beh tutti hanno questo bisogno, credo.
– Mmh forse, ora come stai?
– In questo preciso momento mi godo il tuo accento e la vista dei tuoi capelli, sciolti.
– Sai sempre come farmi sorridere.
– Potrei farne una professione, mi pagheresti?
– Forse sì.
– Comunque ho scritto in una mail che il 2013 sarà un anno più che decisivo, in senso lavorativo e altro.
– Che effetto ti fa avermi qui.
– Ci speravo, non ci credevo, mi sono mancati almeno un paio di battiti fatti bene, quando ti ho vista uscire dal gate.
– Esagerato.
– Mica scherzo, sono emozioni che si ricordano se il tuo percorso attuale è piatto come un’asse da stiro.
– Tu sei assetato, di emozioni dico.
– Da poco, ma forse un millimetro tossico sì.
– Non rimarrò qui molto, lo sai.
– Rimarrai qui il tempo sufficiente per avere un ricordo preciso di te.
– Quando dici ‘ste cose guardando negli occhi eserciti un enorme potere, ne sei cosciente?
– Non faccio apposta, le penso queste cose.
– In realtà credo tu prenda tempo in modo da farmi ubriacare.
– Mi hai confessato più volte di essere molto a tuo agio da ubriaca.
– In effetti…
– Sai benissimo che fare l’amore con te mi renderebbe enormemente felice e strafatto di emozioni.
– Così mi fai arrossire.
– Non ci credo neanche se ti presenti con un certificato medico che lo attesta.
– Cominci a sapere tante cose di me.
– Cominci a sapere le stesse cose di me.
– Vuoi dire che siamo fatti l’uno per l’altra?
– No, vuol dire che siamo simili, vagabondi allo stesso modo, cocciuti oltre ogni limite.
– Mette paura.
– Ma vah, ti trovo semplicemente adorabile, tutto qui.
– Parliamo dei chilometri.
– Metodo di misurazione delle lunghezze altamente sopravvalutato.
– Può darsi ma quando si misurano nell’ordine delle quattro cifre contano, non credi?
– Sì, hai ragione da vendere.
– Non essere triste ora, sono qui adesso.
– Non ti preoccupare, ti ho spiegato un sacco di volte che da tempo vivo alla giornata, quello che arriva me lo prendo e me lo godo, il resto non conta.
– Ottimo modo per sopravvivere.
– A volte funziona.
– Ma poi?
– Mettiamola così, cerca di percepire quest’attimo preciso, le tue mani, le mie mani, i nostri visi vicini, i nostri respiri che si fondono, il contatto sul tavolo, l’ebbrezza da alcol, chiudi gli occhi e inspira, ascolta i rumori e il passare dei secondi, ascolta.
– Sì.
– Ora baciami.