Genesi

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Il terzo colpo arriva sopra il femorale sinistro.
La Mag da sei, aggeggio duro terroristico, sbatte contro i nervi in tensione. Una stilettata diretta alla tempia destra e appena sopra il setto nasale.

Riflessologia.

Suoni distorti a svanire oltre la porta. Voci e risate.
Gli accenti e il tono strascicato sono una consuetudine da telegiornale di mezza sera, anche il puzzo di sigarette troppo forti è caratteristico di chi non ha ancora a che fare con una legislatura restrittiva per quanto riguarda il fumo.
Crani rasati, sudore, sigarette e giacche beige militare.
Le mani tornano a imprigionarmi le guance, a fatica apro la bocca per respirare, il colpo riflesso della torcia a batterie si è aperto un’autostrada di dolore attraverso i gangli.
Puzza nervosa e occhi azzurri, lontanissimi.
I suoni distorti si mischiano al rumore di un generatore a benzina.

Inevitabile, sorride.

Sa benissimo che chiunque ha dentro di sé un limite, una barriera ben definita oltre alla quale è impossibile resistere.
La mia faccia è un disegno preciso di sofferenza, maschera satura privata di sonno, igiene e norme elementari di sopravvivenza spicciola, da troppe ore.

-Tu puoi farlo finire. Tu.

Parla un italiano fluido, ma è evidente che non è la sua lingua, più probabile che siano mercenari serbi al servizio di Al Qaeda, tutta da ridere.
Se solo riuscissi ad aprire la bocca in un unico movimento indotto.
Forse sarebbe interessato al mio passato, la carriera militare, l’accademia, il controspionaggio militare, su fino a.

Questo.

Ucciso sotto interrogatorio a Karbala, sponda ovest dell’Eufrate, buco del culo del mondo.
Quarto colpo, gamba destra, a metà verso l’inguine. Un flash porpora lungo tutto il bacino e il polmone sinistro.

Riflessologia.
Respiro troncato, urlo soffocato e buio.

Questa volta mi strappano a una quieta spiaggia, mediterranea, odore di spezie nell’aria, vento teso e acqua in vari toni di verde.
Usano sali da pronto soccorso, riemergo tossendo.

-Non svenire più.

È una semplice constatazione, non ha neanche il tono della minaccia.

-Stai morendo.

Altra constatazione.

-Voglio solo lasciarti riposare, dormire, mangiare un po’, bere. Magari andare a pisciare in un bagno e non, qui.

Indica con un gesto del polso la sedia sotto di me, il pavimento intriso di fluidi corporali delle ultime quarantotto, settantadue ore.
Il polso si flette ancora sotto al suo ribrezzo.
Abbasso lo sguardo e piccole gocce di sangue scivolano sul pene e sui testicoli.
Sono, ovviamente, nudo.
Si accende l’ennesima sigaretta e me la caccia tra le labbra tumefatte, è un mercenario slavo e gli slavi pensano che tutto il mondo fumi. Ma questo è un altro di quei gesti che fanno parte del bagaglio di ogni buon agente.
La sigaretta di tregua a metà dell’interrogatorio.
Coraggio è tutto passato, il momento è lo spartiacque verso un dialogo più umano. Fidati di noi, non vogliamo più farti soffrire.
È tutto scritto non c’è più niente da decidere anche se da ora cominceranno con qualcosa di drastico, unghie strappate, corrente elettrica.
Eppure è così difficile credere alla realtà, a quello che sta per accadere.
Il mastino si accoscia.

-Bastano solo due nomi, è semplice no? Vale la pena coprirli per i quattro soldi che ti danno? Poche parole.

Niente unghie.
Una specie di fiato veloce e il suo torso scatta.
L’Aikido è una scienza esatta.
Volo sul pavimento con tutta la sedia.

-Ne puoi uscire ancora.

La spalla sinistra è andata, minimo una lussatura, le fascette di plastica che mi tengono i polsi non hanno permesso un atterraggio naturale, ho percepito l’osso scivolare fuori dalla sede.
Mi ha appoggiato un ginocchio alla trachea.

-Sono poche parole in fondo.

Con la coda dell’occhio osservo gli altri due al tavolo, il computer e il microfono ambientale collegato, immagino un programma per analizzare lo stress, qualcosa di americano, sofisticato.
Sospira, afflitto.

-Se continui con questo atteggiamento poco costruttivo non mi lasci alternative.

Ridacchia soddisfatto.

-Pensi davvero che il tuo pidocchioso governo riesca a fermare tutto questo? Hai una vaga idea di quanti soldi ci sono in ballo, quanto potere?

Non sento quasi più niente, spero solo che decida, per mancanza di tempo, di fare una cosa veloce.

-Va bene, va bene.

Si alza e si rivolge agli altri.

-Preparate.

Ecco è finita. Il momento esatto, qui finisce la spia e ha genesi il soldato.
Strano, l’idea di affrontare la morte mi spaventa meno che essere ancora tra le mani di quest’uomo per un altro giorno.
Stendono con calma un telo cerato appena a un passo dalla sedia, passano allo slavo fitto, uno dei tre pare non essere d’accordo ma è palesemente in minoranza, il discorso è chiuso con un ordine secco.
Il pelato si rivolge ancora a me.

-Devo dire che non avrei mai pensato di veder resistere così un italiano.

Fischietta o’ sole mio, proprio così, fischietta, poi si regala una risata sbracata e mi getta a terra, questa volta la faccia s’immerge in un odore gommato che mi provoca un lungo conato.
Quello in disaccordo imbraccia un AK corto e sgancia la leva di armamento, faccio appena in tempo a perdermi nei suoi occhi vuoti e la raffica riempie la stanza di cordite e fumo.
Incasso duro al centro del petto, il dolore satura i gangli, fluidi e carne morta riempiono la cassa toracica.
Nell’attimo stesso in cui vedo la morte il metabolismo inizia il processo. Programmato con cura al centro del cervelletto, il meccanismo innestato chirurgicamente segnala il rischio di cessata funzione alla seconda parte del sistema, allo stesso tempo comincia a diramare ordini per pompare adrenalina nel cuore, quel tanto che basta a portare a termine il programma.
Viaggiando attraverso la rete neurale, il comando arriva ai due piccoli ordigni al plasmafosforo innestati nelle cosce.
Ignari di quello che sta avvenendo i tre cominciano a richiudere su sé stesso il telo dopo avermi slegato dalla sedia, uno di loro si accorge che ho ancora gli occhi aperti, da di gomito al capo e gli fa notare la stranezza.
Lui si china ancora una volta e mormora piano.

-Fottuto di un italiano, sei duro a morire. Spiacente non abbiamo altri proiettili da sprecare, ti toccherà crepare dissanguato.

Appena un decimo di secondo dopo avviene.
Il plasma obbedisce ai detonatori cellulari e dirompe verso l’esterno provocando due lingue di fuoco che avvolgono l’intero ambiente, il  fosforo si nutre dell’aria stantia e comincia a fare il suo dovere.
Brucia qualsiasi cosa nel raggio di una trentina di metri cubi ad una temperatura stimata di millesettecento gradi.
I tre si agitano senza parole dato che l’alto esplosivo ha carbonizzato all’istante lingue, laringi e corde vocali, dopo qualche secondo le ossa cedono e i mercenari vanno semplicemente in pezzi sotto il peso delle poche parti molli ancora risparmiate dal rogo.
Le nanoparticelle che costituiscono gran parte della centralina neurale mi evitano qualsiasi tipo di riscontro fisico, hanno staccato il contatto e la percezione si limita ad un curioso vagare della mente prima del buio definitivo.
La blindatura al titanio risparmia ai contribuenti la spesa per un processore nuovo, il resto del corpo è sacrificabile. Quando le fiammate biancastre esauriscono il combustibile e i gradi scendono sulla colonnina di mercurio il sistema si pone in stasi e stacca la corrente.
Nessun dolore, colori o ricordi.
Vado incontro a un sonno pesante.

Fino al prossimo risveglio.

Morning Glory

carabinieri-gis-terrorismo

Lasciare il piumone è l’impresa più ardua.
Scivolare fuori dal letto nell’aria fredda senza svegliare loro due che, inevitabilmente, dormono sullo stesso cuscino attaccati.
Come sempre le attraversa il viso un ciuffo biondo balzato fuori chissà da dove, segue la curva del naso, lambisce leggero le labbra carnose, si adagia sul collo.
Come sempre è attorcigliato in una posa complicata, le gambe da una parte, le braccia dall’altra, il busto di traverso, le labbra – identiche a lei – leggermente aperte in un respiro pesante, come solo i bambini perennemente raffreddati dall’aria fetida di Milano.
Muovo qualche passo nel buio, guadagno la porta, sulla soglia è solo un fiato frettoloso:
– Stai attento.
Schiocco un bacio all’oscurità indovinando il suo profilo.
Attraverso la tapparella il gelo di gennaio, la nebbia di gennaio, spessa, ovattata.
Mi vesto con calma, gesti meccanici, consueti, la calzamaglia sotto i pantaloni con i tasconi, gli scarponi pesanti, il pile.
Il primo caffè sarà in ufficio, per ora solo un paio di biscotti, yoghurt alla frutta.
Fuori.
Guido con calma il pickup carico lungo la tangenziale, l’alba sorge compatta di un grigio assoluto, la nebbia appare e svanisce a banchi, i termometri a led dei grattacieli ai lati della striscia, meno tre, meno quattro.
Il freddo penetra, dentro.
Il lavoro, la famiglia, stai attento.
Con la coda dell’occhio osservo le altre macchine, guidatori imbacuccati, radio accese, qualche sigaretta, sguardi tesi, contratti.
Il paese sprofonda in una fossa buia, di morchia putrida.
Nessuno è al sicuro, nessuno sa se tra un mese avrà ancora un lavoro, nessuno. Scaccio il pensiero scrollando la testa inconsciamente, il buio solido rimane appeso in fondo al cuore.
Stringo il volante e la mascella, un’altra giornata per arrivare da loro, le carezze, i sorrisi prima di cena, i giochi sul pavimento della cameretta.
Fare l’amore in silenzio per non svegliarlo, ritrovarselo comunque nel lettone, calci nella schiena e manate in piena notte.
Un figlio ti stravolge, la famiglia ti riempie l’anima di responsabilità scavate dal profondo, che neanche avresti mai sospettato di possedere.
Osservi di fronte alla macchinetta i colleghi più giovani, spavaldi, fanno le otto ore, aperitivo e discoteca, alla mattina freschi come rose.
Non esiste stanchezza paragonabile a tirare su un figlio, al semplice dubbio di essere in grado di farlo.
Nessuna.
Eppure nessuna soddisfazione più grande nel vederlo fare un gol, sfrecciare verso di te con un dieci sul quaderno.
Nessuna.
Il pickup risponde bene, una mano alla sintonia della radio, sistemare meglio la cintura. Poi quel rumore, sottile nell’aria tiepida dell’abitacolo.

Ssshhhclick.

L’oggetto nero sul sedile del passeggero si anima, una luce verde sul lato, lo impugno, indosso l’auricolare, schiaccio il tasto.
Enrico Fulgoni porta il furgone a tallonare la Fiat Freemont al centro della carreggiata, le altre tre autocivetta del Gruppo sulla sinistra, sulla destra e davanti al muso del grosso SUV.
L’auricolare si anima:
– Base a uno, luce verde.
Fulgoni assapora il tempo che congela, poi risponde, appena una vaga idea di ansia nella voce.
– Uno a base, ricevuto, procedo.
La voce metallica dal trasmettitore sul sedile conferma senza esitazioni.
– Base a tutti, chiudete la rete.
Nello stesso momento l’uomo al volante schiaccia a fondo l’acceleratore, il motore Toyota ruggisce e il muso urta violentemente il paraurti della Fiat. Le tre auto chiudono la trappola inchiodando a loro volta, nello specchietto Fulgoni osserva altre quattro macchine appena qualche decina di metri da loro mettersi di traverso con i lampeggianti accesi a bloccare la carreggiata.
Poi il riflesso prende il sopravvento.
Estrae dalla tasca del giaccone un Mefisto e lo indossa con un gesto fluido mentre con l’altra mano porta il furgone in una sbandata ben controllata, rumore di lamiera, puzzo di frizione.
Si china e raccoglie l’arma.
Spalanca la portiera e si catapulta all’esterno ancorando alla spalla un mini Galil con doppia impugnatura e doppio caricatore da quaranta .223 Remington, per un decimo di secondo il viso di suo figlio penetra, ma è solo un attimo, puntella lo scarpone sinistro sull’asfalto e ritorna a essere molla in trazione.
Dagli altri tre lati della trappola esplodono cinque uomini, antiproiettile, armi a tiro rapido come la sua, viso distorto dal passamontagna, uomini del Gruppo, estrema ratio.
Enrico Fulgoni si avvicina lentamente un centimetro dopo l’altro, cerca di coprire con lo sguardo ogni possibile spazio di fuga, nessuna reazione dal SUV.
L’urlo lo coglie impreparato, dalla sua destra.
– Carabinieri, uscite con le mani in vista!
Contrae le dita sulla fibra delle impugnature, arrendetevi, arrendetevi, per piacere arrendetevi.
Non basta, non può bastare, non con belve di quel tipo.
Vengono da Rosarno, provincia di Reggio Calabria, vengono per stabilire una testa di ponte con altre ‘ndrine presenti sul territorio, a differenza degli altri hanno focalizzato tutto il loro potere sul commercio internazionale di armi da guerra.
Massimi gradi gerarchici ‘ndrina Strangio, un padrino, quattro vangelisti a coprirgli le spalle.
La più feroce delle organizzazioni criminali, ramificazioni in ogni parte del mondo.
Non può bastare.
Quattro portiere si aprono all’unisono.
Cinque uomini a braccia alzate, facce dure, feroci.
Nove mani vuote.
Nove.
Mark 47 granata incendiaria al fosforo bianco, dotazione truppe d’élite esercito americano.
L’inferno in un barattolo.
Fulgoni è un vetro spezzato.
– Non farlo, non lo farai, posa quell’affare del cazzo, posalo ora.
Lui ridacchia, una perfetta imitazione di uno Scarface da trivio.
– Vuoi morire sbirro? Lo sai cos’è questo vero?
Con un guizzo afferra l’anello della spoletta e dà una strappata orizzontale.
Nell’attimo stesso in cui inclina il braccio per lanciare uno degli uomini della macchina di destra allinea la tacca dell’alzo e prende una decisione.
La testa del mafioso riceve d’infilata due blindati, il primo s’infila nell’orbita sinistra, il secondo penetra nella tempia, ambedue scavano un cratere d’uscita, l’uomo crolla come un sacco di stracci senza un lamento.
Il barattolo vola sull’asfalto, il barattolo senza più controllo sulla leva di armamento emette un tlock sordo impattando tra le auto.
La piccola carica esplosiva fa il suo dovere, il fosforo erutta a 2800 gradi schizzando ovunque lacrime di morte.
Lacrime e morte.
Non esiste cura, non c’è antidoto, ci sono consigli che vengono dati per un incidente industriale, cose che vagheggiano di bagni nel bicarbonato di sodio, lavaggi immediati dopo l’esposizione fisica della parte.
Sono stronzate.
Questo pensa il tenente Enrico Fulgoni.
Stronzate, questo tipo di orrore non ha una rimedio, non concede speranze.
Appena un secondo dopo ha in testa un nome.
Quello di suo figlio.
La sostanza si appiccica, invade, penetra. La sostanza brucia.
I corpi ardono illuminando l’asfalto, torce bianche splendenti nelle prime luci dell’alba.
I corpi urlano.
Ma il fosforo chiude il tempo, scava le trachee, distrugge ugole, corde vocali, carbonizza esofago e parti molli.
Tre uomini del Gruppo si salvano gettandosi nella scarpata oltre il guard-rail, due vengono investiti in pieno dal muro solido di calore, crollano dopo una manciata di secondi durante i quali si agitano come pupazzi senza rumore.
Al centro di ground zero i quattro criminali superstiti sperimentano un calore nova, la pelle vaporizza, il cranio esplode per la pressione di ebollizione, le ossa liquefano.
Faccio appena in tempo a lasciare il fucile d’assalto, con la coda dell’occhio ho percepito la contrazione del dito sul grilletto.
Ho preso la mia decisione.
L’esplosione è una mazzata violenta alla base della schiena, in qualche modo riesco a rimanere in piedi ad allontanarmi dal rogo.
Fuggire.
Recuperare il respiro.
Stai attento.
Mi giro lentamente, inferno eterno, terminale, conclusivo.
Uno degli uomini scampati alle fiamme, corre verso di me, si leva il cappuccio nero, butta l’arma sull’asfalto.
Rizzo, Giovanni Rizzo, sottotenente.
Sguardo stravolto dallo choc, gesti convulsi, uomini al limite dell’addestramento perfetto, ma uomini.
– Cristo tenente, Cristo che casino di merda.
Mi osserva, sbianca di colpo.
– Tenente, si sdrai, si sdrai chiamo un’ambulanza.
Non ci arrivo.
– Sono morti Giovanni, morti.
Indica da qualche parte sotto di me, l’asfalto?
– La gamba tenente, la sua gamba.
Un pezzo di lamiera, trenta, trentacinque centimetri, dalla coscia. Il sangue spruzza come da un rubinetto al massimo della pressione, ho già visto questa cosa l’ho già vista.
Arteria femorale.
Gli sorrido, lentamente il dolore si propaga.
– Inutile Giovanni, è inutile, non faranno mai a tempo.
Mi cedono le ginocchia, ruvida, la superficie ghiacciata sotto le dita delle mani, un lago cremisi contrasta col grigio del cielo.
– Tenente, diocristo tenente.

Fa il secondo gol dalla destra, con gran tiro di collo pieno, si volta verso sua madre che balza in piedi.
Bacia la ragazza con delicatezza, quasi timore, sul pianerottolo al riparo dalla pioggia che scroscia violenta, lei gli prende la nuca, lo attira a sé ancora.
Tiene le mani strette l’una sull’altra, le nocche sbiancate, il ciuffo biondo ribelle sul collo. In fondo all’aula i professori stringono le mani al ragazzo, lei soffoca un singhiozzo, non vuole farsi vedere da lui, alza gli occhi. Il ragazzo apre le braccia, gli amici applaudono.
Prende tra le dita tremanti la foto incorniciata, la divisa nera, lo sguardo severo sotto al berretto, l’accarezza forse per l’ultima volta, poi la chiude in un cassetto con calma.
Si gira verso lo specchio, cerca nell’astuccio un bel rossetto.

Rizzo apre la bocca, non lo sento più da qualche minuto.
Non sento più nemmeno il freddo, lui si agita.
Lo fisso negli occhi neri e annuisco.
Ok, ora vado.

Nella cripta (estratto)

Milano.


Un poliziotto, due carabinieri speciali, un tenente dell’esercito d’Israele.

Passi incerti a chiudere lo spazio nell’incubo, perlustrare, verificare singoli brandelli che indichino una pista da battere.

GIS tre, rilevatore infrared di calore FINDER X19, auricolare wireless, otto led su dieci in pulsazione sistematica.

– Nord, venti, ventidue metri; debole, fermo.

Annuisco, taglio del palmo aperto, si prosegue.

Le pareti sembrano chiudersi su sé stesse, soffitti quasi invisibili, fioca luminescenza giù in fondo.

Contatto.

Luce blu, filtra attraverso qualcosa di indefinito.

Harazi appena un attimo prima della rilevazione elettronica.

– Contatto, la vedi anche tu Andrea?

GIS tre conferma.

– Ho una lettura precisa, nove metri, nord, massa debole di calore.

Non è una porta, è un sistema di pannelli di plastica traslucida, rigata.

Capire è morire.

Cella a regime temperato, porte utili per permettere l’ingresso di barelle.

Accucciati ai lati dell’apertura, pronti allo sbalzo, forse l’ultimo sbalzo.

Dentro.

Chiudo e riapro, una frazione di secondo per mettere a fuoco attraverso il visore della maschera, mettere a fuoco l’ambiente completamente alieno dal resto.

Tavoli di metallo, pareti blu, piccoli led del medesimo colore elettrico a segnalare un percorso sul pavimento brinato.

Un percorso per barelle.

Sopra a ogni tavolo una luce da camera operatoria, carrelli medicali ingombri di strumenti, uno stanzone vasto, sorprendentemente asettico nell’insieme.

Tranne che per i corpi.

O quello che resta dei corpi.

Le statistiche parlano chiaro, all’incontro improvviso con un corpo variamente mutilato, la persona comune nota per prima cosa i bulbi oculari rimossi violentemente.

Il militare nota i visceri esposti.

La psicologia ci si è applicata e, udite udite, ha stabilito senza alcuna ombra di dubbio che il motivo è la paura.

La maggior parte delle ferite da impatto esplosivo in ambito di combattimento causano la fuoriuscita più o meno copiosa delle budella, ergo, i militari temono quello.

Davvero.

Che rivelazione del cazzo.

Però funziona.

Interiora colano dai tavoli, insozzano le lastre satinate, strisciano come rettili accarezzando le piastrelle sbeccate, regalando riflessi di luce offuscata sui led.

Istintivamente porto la destra allo stomaco, istintivamente sento il bisogno impellente di urinare, il freddo qui è tremendo.

Una mattanza esplosa.

Tu lo sai cos’è.

Lo sai.

È il risultato, lo splendido risultato dell’ingegneria genetica, la fantastica programmazione molecolare dell’infinitamente piccolo.

La mutazione Marburg in un tripudio di onnipotenza deflagrata.

Quello che resta dei corpi è scoppiato all’esterno sotto l’urto della virus mutato, quello che resta dei corpi è tracimato mentre gli essere umani ancora vivi provavano a contenere la propria carne dotata di una cinetica indipendente.

Un’entropia terminale senza speranza.

Corpi, a perdita d’occhio.

– Capitano, diocristosantissimo.

Fulgoni, pallido come uno dei pezzi di carne adagiata.

Lo guardo negli occhi, la mano destra ancora a premere sul ventre

La paura, la paura uomo, che le cose dentro possano uscire.

– Giovanni, il calore, la traccia di calore.

Il suo collega si china sullo strumento, alza un indice guantato, di nuovo Harazi è già lì, sulla traiettoria del gesto del commando.

Una donna è collegata a un apparecchio che emette un lieve ronzio, nelle braccia quattro diverse flebo vanno a riunirsi per creare un cocktail sconosciuto, il tracciato sul monitor testimonia un’attività cardiaca.

Il tracciato su un secondo monitor segnala attività elettrica del cervello.

– E’ viva Andrea, madrediddio, è viva, come fa.

Non lo sento, non lo sento più.

Il corpo è legato con cinghie di contenzione polsi/caviglie, il corpo è un’orgia tecnologica di sensori, tubi che penetrano e fuoriescono, cicatrici ricucite con approssimazione, il corpo vibra leggermente.

– Non è solo viva.

Fulgoni è un fiato mozzato.

– Questo tracciato indica che è cosc…

Quello che resta degli occhi si spalanca di colpo, istintivamente facciamo tutti un balzo all’indietro,

orbite vuote, cristallini assenti, iridi assenti, bulbi oculari sostituiti da una poltiglia rossastra che inizia a colare all’esterno.

Un decimo di secondo dopo la donna spalanca la bocca e inizia a urlare.

Sbagliato, tutto sbagliato.

La donna tenta di urlare, ma quello che esce è un gorgoglio umido di fluidi.

La donna non possiede più lingua, con ogni probabilità la donna non possiede più nemmeno corde vocali.

Harazi pone temine.

Estrae dalla fondina alla coscia una IMI GW cal. 45 caseless, trentacinque dardi in lega Tungsteno/Boro, cinetica generata da una camera di spinta pompata ad Azoto 400bar.

Prima che possa anche solo improvvisare un’obbiezione punta al centro della fronte e inchioda la donna al tavolo operatorio, un leggero sussulto, poi più nulla