Pensatemi

E soprattutto pensate al fatto che, in questi giorni, mentre girate con la-scarpa-che-respira, con le infradito, con scarpe da vela (esistono ancora?), con decoltèe senza calze.
Io viaggio con queste dalle 07.30 alle 17.00

Sigh

Ipermercato (magna cum laude)

Lo fa sempre.
Qualche secondo dopo aver estratto la scheda elettronica dalla fessura di avviamento del Carrera S4 chiude gli occhi, respira a fondo il profumo della pelle cucita a mano e sorride.
Poi apre la portiera con calma, inforca i RayBan, afferra la valigetta griffata e si allontana dal parcheggio riservato.
Università degli studi di Milano, Bicocca, l’esimio professore tributa un’ultima occhiata alla linea slanciata della Porsche, poi lentamente si avvia verso gli ascensori.
Giornata di esami.
Il pensiero incrina per un attimo il sorriso, frutto di un’accurata ricostruzione odontoiatrica, giornata di esami.
Una mandria di decerebrati in processione verso il suo incontestabile giudizio.
Ci sarebbe quasi da riderne se non fosse che la cosa rischia di fargli saltare l’appuntamento del pomeriggio con la biondina del terzo anno, seni alti e sodi, occhi azzurro oceano e una feroce determinazione per la media del ventotto.
Andare a letto con una studentessa, lo sapesse il rettore.
Leggero accenno di una risata che si spegne nell’eco silenziosa del cemento freddo, pallone gonfiato del cazzo.
Il potere, i soldi delle conferenze, gli inviti delle multinazionali negli alberghi a cinque stelle, i libri scritti dagli assistenti.
Il potere.
Il ghigno si allarga in un’espressione da lupo.
L’unica cosa che, davvero, ha sempre avuto importanza nella sua vita.
La scalata al potere.
Calpestando tutto e tutti.
Soffoca un brivido di eccitazione quasi sessuale, la porta della rampa è lì a qualche metro, poi.
Il buio.
La sensazione solida del buio, ma soprattutto della presenza, poi.
I passi.
Appena qualche secondo dopo, la percezione fisica del pericolo, respiro accelerato, sudorazione aumentata, dilatazione istantanea delle pupille, contrazione muscolare.
Non è sufficiente, non può esserlo quando è un predatore di questo tipo, sulle tue tracce.
France appoggia con calma la mostruosa canna della IMI Desert Eagle in calibro 50 alla nuca dell’esimio professore.
La brusca deviazione sul divenire preciso delle cose è pressoché istantanea.
Le parole escono roche, di troppo fumo, di stanchezza nervosa, repressa.
– Non è una buona giornata.
Una donna, una ragazza, forse posso ancora, forse.
Il primo pensiero è sempre quello che ti frega.
– Chi, chi sei, cosa vuoi.
Autorità svanita chissà dove, parole smozzicate, impaurite.
– Marketing.
La pressione alla nuca, quasi dolorosa.
– Come?
La ragazza riprende sicura, quasi annoiata.
– Se sei assolutamente CERTO di aver creato il prodotto perfetto, devi credere nel marketing, per farlo conoscere al pubblico.
Piccole gocce di sudore, rasoiate leggere lungo la colonna vertebrale. Un tono che non ammette repliche.
– Girati, piano.
Lentamente, provando in ogni modo a mantenere il controllo dei visceri, la paura uomo, la paura che divora.
Bruna, coda di cavallo alta, sui venti, ventidue, minuta, occhi del nero più nero che abbia mai visto, forgiati a caldo dal diavolo in persona, nella fornace dell’inferno.
Indossa una camicetta di cotone bianca, sobria, gonna corta nera, calze nere, stivali da motociclista con la fibbia.
La caverna si spalanca su di lui, la bruna padroneggia con noncuranza la pistola più grossa che abbia mai visto.
Una bocca di fuoco sfrontata, spaventosa nella sua essenza.
– Gli israeliani creano questa pistola, l’arma perfetta, in grado di fermare un’auto in corsa con un colpo nel motore. Il modo migliore per farla conoscere?
Sorride, ma il sorriso non raggiunge neanche per un decimo di secondo l’ossidiana incastonata.
– Il massacro sistematico e senza fine apparente, un gigantesco spot lungo tutte le epoche, cadaveri smembrati nelle strade, nelle piazze. La morte in prima serata, il marketing.
L’esimio professore si piscia sotto.
E la pozza che si allarga lungo i pantaloni ricoprendo le scarpe costose non è davvero un bel vedere.
– Cosavuoidamecosacosa.
Respiro finito, mozzato, troncato sul nascere.
France sorride ancora, solleva di un paio di millimetri il baricentro di massa, inquadra al centro della fronte.
– Soldi, che altro.
Rapinarti uomo, la stronza ti vuole rapinare.
– La stima è attendibile, del resto nell’epoca del web è fin troppo facile.
La canna del mostro si sposta impercettibilmente, fino a raggiungere i pantaloni fradici.
– Molto semplice, in quella borsa tu hai un Blackberry, ti colleghi alla banca io ti fornisco i dati, tu fai un bonifico.
Pare non capire, l’esimio non capisce.
– Un bonifico? Ma a chi, per cosa, ma.
Lei strizza l’occhio sinistro, prende la mira al centro delle palle.
– Non UN bonifico, IL bonifico, banca offshore, un milione di euro.
Deve farlo, deve provarci.
– Ma sei pazza? Ma credi davvero che.
TA-CLACK
Fottuto, fregato, niente più biondine dalle tette sode, è bastato il rumore della leva di armamento del mostro, obice in canna, hollow point massima devastazione.
Riacquista una parvenza di autocontrollo.
– Lo farò.
Estrae lo smartphone, si collega all’homebank, alza la testa, lei recita a memoria i codici, la voce è quasi sensuale, il tutto dura al massimo due minuti.
Fregato.
– Benissimo professore, inutile dirti che dovessi in qualche modo sospendere il pagamento verremo a trovarti, io e l’aquila del deserto. È stato un vero piacere.
Buona giornata.
Non può finire così non può.
La stupidità crea martiri immolati sull’altare della rabbia.
– Brutta vacca schifosa, troia impestata, ti troverò, dovessi cercarti all’inferno, ti troverò e mi pregherai di ridarmi i miei soldi. Lo farai, te lo giuro.
Francesca sorride di spalle, assapora il momento, il brivido eccitato, la vita che scorre, che fluisce come una scarica elettrica attraverso le terminazioni nervose.
Poi si gira, per l’ultima volta.
– No, non lo farai.
Oh cazzo.
Weaver alta, a due mani, ginocchia leggermente flesse per assorbire il rinculo.
Lo sparo pare l’urlo di un dio infuriato, la blindatura al boro apre un tunnel nell’aria stantia del garage e colpisce al baricentro grosso di massa.
Il foro di ingresso è una palla da tennis bruciacchiata, il foro di uscita uno squarcio slabbrato delle dimensioni di un melone.
Le budella dell’esimio professore irrompono all’esterno sotto la pressione inversa della spinta disegnando uno splendido Pollock sull’asfalto sbeccato del pavimento.
Finisce in ginocchio, gorgogliando fluidi e carne morta.
Finisce.

Francesca scivola un passo leggero dopo l’altro, lascia lì il tanfo sordido della morte violenta.
Esce nel sole.

Slamdunk (basta poco)

Domenica 18.03.2012 – 17:15

Andrea viene avanti sicuro, lo sguardo alto, attento.
Massimo mi caccia l’ennesima gomitata, puro mestiere, Orlando a sinistra, Roberto a destra, lui è il più tosto.
Davide, ha 22 anni e vola sul campo con grazia leggera, movimenti fluidi, oggi è in squadra con me, per fortuna.
Andrea in lunetta, occhiata veloce, si alza e finta il tiro in sospensione, spingo su Massimo che abbocca e risponde con la spalla, faccio un mezzo giro e lui si sbilancia.
Andrea scarica al centro mentre Roberto emette un gemito soffocato per la beffa.
Ho la palla a spicchi tra le mani sudate.
Roberto tenta un recupero, alza le braccia, lo sa già che è inutile, non da quel punto dell’area.
Fletto le ginocchia al massimo.
Salto in mezzo a una selva di braccia.
Schiaccio a due mani e mi appendo al ferro, in faccia a tutto e tutti.

L’attimo è congelato, forse per sempre, respiri, gocce di sudore.
Andrea viene da me e picchia due cinque altissimi, come lui.
Sorrido, basta poco per sentirsi vivi.
Ancora.

 

Downgrade

 

– Sparagli, di nuovo.
– Perchè?
– La sua anima balla ancora.

Quando il cielo sopra Milano è la primavera in detonazione radiale
che taglia gambe e respiri
Quando scopri troppe cicatrici tra le mani
e silenzi interrotti da respiri venati di buio
Quando nemmeno l’odore e il sapore di un colore amico
ritagliato d’ambra
Tempo fa, qualcuno, seguendo rughe leggere ai lati del mio sorriso
Disse una cosa sfidando il fondo di questi due pezzi di vetro scheggiato
Sembri nato per osservare colori
E renderli
Li ho creati i colori
Li vedevo nascere
E morire
Ma non è sufficiente, non lo è mai
Non può esserlo se ai sospiri e al tocco leggero
Sostituisci un vulcano impazzito di squarci slabbrati
La prima vittima della guerra è l’innocenza

Si dice
La prima vittima di una separazione in progress è il rispetto

Dico io
Insomma alla fine quando i sorrisi cedono il posto alle urla soffocate
Se le candele profumate sbattono la porta e finalmente al citofono hai un mostro ghignante
Si chiama Rabbia

Allora li vedi

Piccoli mostri che sbucano dalla polvere sotto il letto armati di tutto punto
Ma è una marea indistinta, vivono nella coda dell’occhio
Però mordono, denti seghettati da squalo
Un’orda di sgorbi neri che ti risale la spina dorsale e
BAM!
Colpisce di netto quell’altro tizio
Mr. Autocontrollo
Dunque ti ritrovi a chiacchierare amabilmente di argomenti simpatici per il tè delle cinque
Compreso il buttare via in un solo unico colpo di maglio sette anni
Compreso il fatto che ci sono due tizi
Il primo ha i suoi occhi
Il secondo i tuoi
Che difficilmente capirebbero al volo
E se ne farebbero volentieri una ragione
So what kids
Ho tediato parecchio con questa storia
Ma come sempre non esistono fottute bacchette magiche
Potter si vende per un paio di grammi all’angolo in circonvalla
Esiste solo un lento sistematico
Downgrade del cazzo

Ipermercato (dissolvenza)

NOCS uno incassa al centro del kevlar la scarica di blindati, fa un mezzo giro mentre gli cedono le costole e le ginocchia, l’MP5 vola via assieme all’elmetto.
Francesca non attende, a tre quarti della scarica estrae un caricatore pieno e sostituisce.
Un movimento fluido, camera di sparo calda.
Lei lo sa che il momento vibra lentissimo, le molecole impazzite tacciono per un istante, tutto sembra muoversi in una bolla di fango rappreso.
Lei lo sa, lo percepisce ed è l’unica che sembra muoversi con una cinetica diversa, quasi postumana.
Rotazione a destra del busto, mani in presa sul Beretta, spinta violenta dei femorali in corsa, capriola a mezz’aria, impatto duro oltre la barriera lucchettata vicino alle casse.
Ginocchio destro a terra, tiro incrociato, grilletto, pressione, seconda scarica.

Strappo della sicura.
Lancio.

Granata LGB7, detonazione istantanea al centro del gruppo in nero.
Il fosforo esplode, il fosforo implode tutta l’aria del cazzo.
E la incendia.

Francesca va.
Dentro.
Attraverso il muro di fiamma come una salamandra impazzita, urlando mentre ciocche di capelli prendono fuoco, lacrimando stilettate di calore assoluto agli occhi.
Marionette incendiate ai lati della percezione agitano una danza senza speranza.
Francesca va.
Tutto il resto muore.

Dissolvenza.

Le 5.30 del mattino esistono

Ci sono case.
E case.

Uno spazio di sessanta metriquadri sospesi a dieci metri d’altezza.
Che se volessi scendere dal cielo direttamente bisognerebbe avere cinque te che si avvolgono.
Come una scala mobile.
Come quei giochi che facevamo da bambini.
Di carte e di domino.

O dominio.

E scendere scendere fino a toccare le piastrelle
Riscaldate dal sole
Fresco di giornata

Ma ora sono qui
Interno casa, interno notte

E ci sono luci
E luci.

Luci al neon, signora?
Oppure preferisce una luce, soffusa. Appena accennata, come un no grazie o un sì poco sorridente.
O le luci di candele che si spostano nella casa come se fossero pedine in cerca di dimensione.
scacco matto.

E ci sono stanze
E stanze.

Tipo, due camere con un acquario che le divide. E i pesci a scoppiare
Bolle
Sul vetro
E le chiavi di questa vita
Confuse con la sabbia
In fondo
Mangimi a zig zag nell’acqua

Un vaso pieno di biglie
E i quadri del mare in tempesta
sulle pareti
Un cielo in ogni stanza
Un mondo in ogni armadio.
Non si aprono, per caso, gli armadi
E’ come aprire un cuore
E poi chiedere “Scusa, ma quanti vestiti hai”
E sentirsi rispondere “Quanto bisogno ho di proteggere.
I vestiti sono strati di superficie fittizia.
Colori nomadi”.

E ci sono notti
E notti.

Di parole.
Di storie.
Di silenzi.
Di presenza e assenza.
Che sembra quasi un registro di scuola
Questa vita. E non ci sono grembiuli e fiocchi.
Ma ti racconteresti la vita
– e le braccia e le gambe e le mani, dita –
come se stessi parlando
improvvisamente
di due nuvole che si attraversano.

E ci sono orologi
E orologi.

Quarzi e verde su nero.
Oppure solo lancette luminose.
Che a un certo punto
– e quel punto è sempre verso e non oltre le tre di notte –
che ti fanno pensare che esista uno spazio che non esiste
irrealtà
una parentesi di tempo
che è un cartone animato
o Babbo Natale e la Befana.

E invece ti trovi lì
A sorprenderti
Ancora
Quando non ci sono le prime albe
E nessuna aurora
Ma sono le 5.30 del mattino
Ed esisti.

Scritta da Isabella/Queen il 17.02.2003

Quando una giornata diventa particolare nella sua essenza va celebrata.
Nel bene e nel male.
Avevo promesso di postare qualcosa che riguardasse le cinque del mattino.
Quali migliori parole se non quelle di una donna innamorata, proprio oggi.
Sembrano passate ere geologiche, milioni di vite, errori su errori.
Alla fine siamo sempre punto e a capo.
Qualcosa che si distrugge pezzo per pezzo, un secondo putrefatto dopo l’altro.
Come disse l’immortale Forrest: “Sono un pò stanchino”.


Ipermercato

Tu che ci vai abbastanza spesso non sei abituato a una scena del genere, tutti sdraiati e il silenzio assordante, solo la musica del cazzo che non smette.
Finalmente la noti, la musica che passano, e decidi che rapinarli è sacrosanto, allora riallinei la mente sugli altri.
Goran a sinistra ruota la testa veloce, si fa così, attento.
Ion smanetta sull’AK, butta la spalla indietro e fa partire il calcio di legno, spacca il labbro a un tizio, ma quello non urla.
Gregor è un serbo di Pale, per una cosa del genere ci vuole sempre un serbo, sono freddi e feroci, tutta Europa lo sa, ma non si può dirlo.
France è calabrese, basta quello, poi ne ha fatte altre, ha passato mesi a studiare la Mondialpol, il soprannome è Doc per la laurea, spinge lo scarpone un pò di più nella nuca del tizio in divisa, lui fa una specie di verso chiuso.
C’è sempre un capo, France è il capo.
Poi però viene giù il casino.
Il terzo, quello che non dovrebbe esserci ma c’è e li ha spiati dalla vetrata, entra urlando col 12 alla spalla.
Un attimo lento in cui tutti si guardano, Gregor storta la bocca sotto il Mefisto, si vede bene.
Bordata di pallettoni triplo zero, naturalmente a vuoto, non puoi urlare e sparare allo stesso tempo, ne viene fuori una stronzata.
L’automatismo si innesca.
L’altro fa il gesto di prendere la nove millimetri, Ion gli spara in faccia da due metri, poltiglia.
– Ma cazzo, no.
France riesce solo a dire una cosa così.
Gregor butta fuori tutti i venti blindati sulla vetrata, incidentalmente taglia in due il terzo.
Sono venuti per i soldi, vogliono i soldi non pezzi di corpo umano sparpagliati.
France sorride a uno sui cinquanta abbronzato che pare Clooney in tre bottoni grigio, poi spara con l’AR al tizio delle chiavi, in pancia.
Non si vedono i sacchi marroni, non si vedono.

Però le sirene urlano.

Francesca fa un mezzo giro con la testa, i capelli neri le scivolano sulle guance, un massaggio lento, liscio.
L’odore del sangue misto a cordite riempie le narici, inebriante, violento.
Quando sei il capo, la mente di un’organizzazione criminale devi saperlo quando le cose prendono una brutta piega.
Lei lo sa, sono le sirene che glielo dicono, sono le ombre nere che scivolano veloci, ombre vomitate dall’inferno degli assassini.
Francesca chiude gli occhi e si concede una frazione di secondo di mare, alza verso il soffitto la canna dell’AR ancora rovente, quel mare azzurro da mettere paura e il sale sulle labbra, sulle spalle bollenti.
Riapre le iridi ossidiana, il tizio rantola ancora, intestini esposti, lei gli toglie lo scarpone dalla nuca.
Sorride, un sorriso bianchissimo, le ombre si avvicinano e sono elmetti neri, mitragliette a tiro rapido, gli altri la osservano al centro dell’Ipermercato, attendono tutti un comando.
Attendono lei.
Francesca passa il fucile d’assalto in hi-ready, pianta il calcio alla spalla destra e attorciglia il nylon della cinghia al gomito sinistro, poi, attraverso la vetrata infranta inquadra la prima delle ombre indistinte.

Prima raffica.
Sarà una lunga giornata.