Ciao Ezio

E’ la prima volta che mi capita di scrivere in memoria di un amico.
Ho sempre schifato allegramente i cosiddetti coccodrilli, letti praticamente mai, criticati praticamente sempre. La memoria e l’annuncio della morte di qualcuno possono benissimo rimanere un fatto personale, da gestire nel proprio intimo, in silenzio.
Eppure la morte di Ezio mi ha fatto scoprire l’esigenza di farlo sapere e scriverne.
Sarà l’età, mi sono detto, sarà che il passare del tempo ti costringe a ragionamenti sulla fine che non avresti mai fatto a vent’anni.
Le ragioni possono essere tante, in realtà ho sempre considerato Ezio una persona speciale, pieno di difetti, forse un pò cialtrone, ma dotato di un’anima vera e pura, una di quelle che raramente si incontra.
C’è molto amaro in bocca quando un tumore ti porta via da sotto gli occhi in un mese un uomo che conosci da una vita, rimane un senso di vuoto improvviso, di mancanza che fai fatica a comprendere, a rimescolare con il quotidiano.

Era amico di mio padre, di quelli veri.
Era un cacciatore, come mio padre, e amava la natura che ritraeva nel suo lavoro con una precisione incredibile, più di ogni altra cosa.
E’ stato il primo che mi ha messo in mano un fucile, sorridendo, fiducioso che non avrei sbagliato o fatto cazzate.
Era uomo di cucina in compagnia, di vino e grappe e casa sempre piena di amici.
Un uomo vero e all’antica.

Sciur Ezio te me manchet giamò, el bicer de monovitigno l’è dumà per tì.

Neve chimica

Alla fine dopo la tiepida benevolenza di un inverno sbagliato, qualcosa ha riportato il tutto su binari precisi, riallineando l’obiettivo primario.

Farci gelare il culo.

Esiste una simpatica novità nel panorama sozzo dell’aria-padana-che-ci-fotte-i-polmoni.
Si chiama Neve Chimica.
In pratica lo smog ghiaccia e si trasforma in fiocchi farinosi e leggiadri, ci sono zone di Milano e hinterland dove pare di essere a Cortina e tutti a dire che bello nevica!
‘Fanculo mi ricorda l’Eternauta, presente?

The wind cries Mary (del perchè non scrivo poesie).

Un vecchio scritto è come un amico che ti viene a trovare in tempi difficili, un amico che conosci a memoria e con cui puoi bere, sbracare e magari cacciare una lacrima senza problemi.
Questo è un pezzo a cui sono affezionato.
Il protagonista anche lui un vecchio amico.

After all the jacks are in their boxes
and the clowns have all gone to bed

-È questione di zincatura della lamiera, il problema sta tutto lì. Lo zinco a contatto con la fiamma del cannello butta fuori una brutta merdaccia di gas tossico, per questo non le faccio certe cose commissario, per questo.
Faccio scivolare per l’ennesima volta due dita sulla fronte, la patina impastata di sudore e polvere è ancora lì e non se ne vuole andare.
Il maledetto ciccione ci riprova.
-Capisce commissario? Quei crucchi l’hanno pensata bene, vuoi tagliare un’Audi? Sappi che rischi i polmoni.
Conclude il glorioso pistolotto appoggiando le mani sui fianchi, puro gesto di sfida bellicosa.
Intorno a via San Dionigi, periferia sud Milano, l’inferno rovente esplode in un tripudio di sterpaglie ammuffite e vegetazione malsana, intrisa di sporcizia e chissà quali resti organici dimenticati.
Sospiro lento, cambiando di posizione all’Originale che mi rimanda un sapore acido di tabacco stagionato, appoggiata allo scheletro di una Volvo in decomposizione, una radiolina martella house music nella calura di Luglio.
Resisto alla tentazione di accedere il Toscano e sfilo gli occhiali da sole.
-Sarà per questo che i ragazzi della DIA sostengono che sei il più grosso importatore del nord Italia di maschere e respiratori antifumi di saldatura. Vero?
Gli cade la faccia sulla canotta unta.
-Importatore? Ma commissario se non ho neanche i soldi per piangere.
Sono stufo marcio di questa gente e delle loro patetiche, false proteste. La sensazione di caldo ora mi si è agganciata saldamente alle tempie.
La Cougar pare un pezzo di morte vomitato da un pozzo buio, il rumore del carrello e del calibro nove che scivola in camera di sparo, non aiuta a rassicurare l’atmosfera.
Il ciccione ora sbianca, Di Buono a sinistra e Casati a destra girano le spalle e controllano che non vi siano colleghi intorno, testimoni intorno.
-Ti spiego la situazione. Diciamo che tu fai rubare, su commissione, una A6 posteggiata davanti al cinema in piazzale Lodi sabato scorso. Diciamo che in questo caso hai venduto i pezzi scomposti e non l’auto intera e che con l’aiuto dei respiratori che non hai importato, la fai a pezzi nel week end.
-Ma io…
Spiano l’automatica davanti al muso.
-Zitto coglione, zitto.
Le cornacchie si ammutoliscono in un lungo terribile istante strascicato, per una frazione di secondo sono certissimo di percepire il rumore delle zampe delle cicale arrampicate sugli steli bruciacchiati dal sole e dai liquami sparsi tra le erbacce.
-Diciamo che il ragazzo che la guidava per quella sera, l’aveva chiesta in prestito a suo padre e che quando esce dal cinema, non trovando più l’auto, consideri la cosa come una catastrofe.
Lo sai come ragiona un ventenne, coglione?
-Mmmgf…
-Sai cosa significa per un ragazzo di quell’età rientrare a casa senza macchina?
La mia voce suona stridula, insetti impazziti aggrediscono le guance sudate del ciccione che ora ha davvero l’aspetto di uno che sta per vomitare.
-Io, io, non saprei ma…
-La testa sembra esploderti, senti il mondo che ti crolla addosso, provi una sensazione d’impotenza mista a frustrazione e colpa, il dolore per aver in qualche modo deluso i tuoi genitori è talmente forte che.
Solleva un sopracciglio, ora ho davvero la sua attenzione.
-Che?
Sono stanco, troppo stanco di fare questo lavoro, di fronteggiare questo sterco tutti i giorni, di accorgermi di quanto il genere umano si sia imputridito sotto i colpi del desiderio di avere sempre di più, del possesso ad ogni costo, della sfrontatezza, dell’egoismo.
Stanco.
-La disperazione è tale che ti chiudi in camera e dopo aver scritto sul portatile una lettera perfettamente impaginata e senza errori, prendi la tua cintura di moda e ti impicchi alla sbarra che usi per fare ginnastica ogni giorno, ogni cazzo di giorno che dio ci manda e che noi sprechiamo rincorrendo macchine che costano come monolocali.
Eccolo qui, il grado di disperazione.
La pistola mi sembra improvvisamente pesantissima e il braccio destro si abbandona inerte lungo il fianco. Abbasso il mento e lo sguardo sullo sterrato mi si riempie di un velo salato.
La radiolina gracchia ancora qualcosa.
-Quindi siete qui per arrestarmi?
I due uomini ai lati della percezione oculare si voltano quasi all’unisono e mi osservano.
-Siamo qui perché il ragazzo era il figlio di un magistrato, uno di quegli amici su cui sai che puoi contare sempre, e che non più tardi di quattro ore fa rantolava ai miei piedi supplicando che qualcuno gli restituisse l’unico figlio.
Non ci saranno arresti oggi.
Crolla all’istante. Si butta per terra davanti a me appoggiandomi la fronte alle scarpe, emette dei suoni inarticolati simili a singhiozzi soffocati. Lo spettacolo è nell’insieme decisamente patetico.
Sono davvero troppo stanco, Casati e Di Buono sono perplessi, mi vedono esitare, alzo lo sguardo verso il cielo, devo stringere gli occhi per riuscire a scrutare la massa compatta color grigio che ci sovrasta, l’afa ha ormai raggiunto livelli da record, dicono che sia in assoluto la settimana più calda che si sia registrata da parecchi anni.
-Commissario la prego non mi uccida, la prego commissario io non sapevo, non potevo sapere. La prego, la prego.
La litania sembra non finire mai, l’automatica è sempre più pesante.
Un suono attira la mia attenzione, dal minuscolo altoparlante della radio, accompagnata dalla solita canzone sentita qualche miliardo di volte, l’ennesima pubblicità di un operatore di telefonia mobile, sale nell’atmosfera offuscata dall’umidità.
Stringo bene l’impugnatura in fibra morbida, lo sparo è un sussulto secco, rapisce una scia d’aria e apre una caverna nella testa dell’uomo accovacciato.
Piccole schegge di scatola cranica schizzano verso il terriccio, le cornacchie si alzano in volo mentre i due uomini estraggono a loro volta e si preparano a fronteggiare una reazione che non verrà.
Raccolgo il bossolo dorato e con un piede giro il cadavere a pancia all’insù.
Inspiro lentamente l’odore di cordite, mi avvicino all’apparecchio che non la smette di decantare le doti di un qualche merdoso prodotto inutile.
Spengo.
-Stronza, pubblicità.
Gli altri due annuiscono.
-Torniamo al lavoro.

And the wind cries Mary

Santa Ana

Uscire alle sei del mattino il nove gennaio, trovare otto/nove gradi.
Una sensazione strana, sbagliata.
Sullo sfondo una specie di vento teso, tiepido, un respiro maligno che fa splendere un sole accecante.
Un amico mi ha parlato secoli fa del Santa Ana, il vento del diavolo, che spesso spazza la California portandosi dietro pazzia e fuoco.
Forse il Santa Ana è arrivato fin qui, forse è tempo di fuoco.

Giuro che non so chi cavolo sia Lexi Amberson, ma spulciando in rete alla ricerca di un qualcosa che spiegasse ufficialmente l’effetto Santa Ana, mi sono imbattutto in questo chiamiamolo flusso di coscienza che spiega un pò la faccenda.

Inoltre Lexi è una gran topa.
Questo non guasta.

Intro

32°22’03.29’’N
62°12’48.46’’E

Non avrebbe dovuto piovere.
Non può piovere all’inferno.
Sussurro al niente.
Eppure un rapido tendaggio nerastro frantuma l’atmosfera immobile senza apparente soluzione di continuità.
I passi nella morchia devastata diventano piombo colato, l’equipaggiamento tattico una spugna livida di umori e fango più o meno rappreso.
Gocce come proiettili campali, qui, nello sfregio cauterizzato dal diavolo.

Qui.
Dove i veri incubi si rivelano al mondo.

Farah, Afghanistan.